E’ stato presentato a Udine presso la libreria Tarantola dell’ottimo Giovanni Tomai “Trust the Process”, l’album d’esordio di Filippo Ieraci, chitarrista tra i più noti nel nostro territorio, sia per le tante collaborazioni, sia per la particolarissima sensibilità artistica.
Dopo il fecondo sodalizio con il pianista Emanuele Filippi, gli arrangiamenti per la North East Ska Jazz Orchestra, il progetto psichedelico “Cucumber Green” con Eugenio Dreas dello scorso anno, Ieraci ha voluto sperimentare ancora la formazione in trio condividendo i suoni e l’immaginazione con il contrabbassista Simone Serafini e con il percussionista Jacopo Zanette, tutt’altro che comprimari ma, navigati e straordinari professionisti che hanno dato un contributo fondamentale alla perfetta riuscita del progetto.
Per nulla secondario lo studio di registrazione, Artesuono di Stefano Amerio, che è la quarta colonna su cui si regge l’edificio musicale del trio, che ha garantito un’ottima calibratura e una speciale profondità e freschezza dei suoni.
Com’è sempre, l’album è l’incontro di diverse sensibilità tenute insieme dalle corde del chitarrista che, pur lasciando grande libertà ai propri “compagni di merende”, traccia i solchi entro i quali il trio ha seminato le proprie tracce.
Di sicuro la germinazione di quei semi di note ha prodotto sonorità e tessiture che possiamo felicemente definire jazz, ma sarebbero le solite parole vuote di prammatica che non sapendo entrare nel merito indicano una nebulosa lontana nella quale tutto può essere genericamente compreso, nascosto e dimenticato. Il lavoro di Ieraci merita di essere indagato più a fondo, magari in modo trasversale e diagonale rispetto al consueto canone del brick a brak critico musicale che molto spesso serve solo a mascherare un impressionante vuoto di idee.
Per indagare il processo creativo che ha guidato l’intuito del chitarrista si sono scelti due aspetti complementari della sua creatività ben presenti nel disco che a tutta prima potrebbero sembrare secondari. Il primo riguarda la sua passione per la fotografia analogica che gli ha permesso di curare tutto il prezioso art work del disco di cui diremo approfonditamente.
Per nulla secondaria anche la sua attenzione alla luce naturale e ai suoi effetti sulla percezione del flusso temporale per una personale sensibilità tutta pittorica e coloristica che trasferisce nella sua musica.
L’elegante copertina dell’album riproduce uno scatto che ritrae l’esterno di uno dei tanti capannoni dell’industriosa periferia di una delle nostre città. In primo piano due automobili parcheggiate, una Jaguar XJ Daimler (6 cilindri, 4000 cc, 230 cv) e una Citroën Ds 21 seconda serie 1967. Basta aprire il folder per trovare un’altra fotografia scattata dall’interno desolato del capannone verso l’esterno dove si indovina la silouette di una Jaguar S Type 2000.
Ai più distratti queste immagini diranno poco, ma basta ragionarci appena un po’ per spalancare un mondo di suggestioni.
La Citroën Déesse, che in francese suona come la “divinità”, è una vera e propria icona dell’epoca psichedelica, proprio quella da cui Ieraci e i suoi compagni traggono le prime ispirazioni per il loro “processo creativo”. Il sound del disco ha di certo una base d’improvvisazione jazz che però sostiene una fitta trama di rimandi alla tradizione del pop colto americano degli anni ’60 e ’70, lo stesso cui ha dedicato uno straordinario tributo il chitarrista John Scofield con il suo trio nel doppio album antologico “Uncle John’s Band” (ECM 2023) che trae il proprio titolo da un famoso brano dei Grateful Dead e che, con le dovute attenzioni, possiamo paragonare idealmente al lavoro del power trio di Ieraci.
La Déesse, come dicevamo, è stata la sintesi estetica del proprio tempo tanto da diventare uno dei “Miti d’oggi” su cui riflette Roland Barthes nell’omonima sua opera. Con un certo azzardo proveremo ad avvicinare brani tratti dal testo del sociologo ad alcuni titoli di “Trust the Process.” Al lettore/ascoltatore l’onere e il piacere di comprendere il senso, ammesso che ci sia davvero.
“Quanto alla materia in se, è certo che essa corrisponde a un gusto per la leggerezza, in senso magico. Si fa ritorno ad un certo aerodinamismo, tuttavia nuovo nella misura in cui è meno massiccio, meno tagliente, più disteso di quello vigente agli albori di questa moda. La velocità qui si esprime in segni meno aggressivi, meno sportivi, come se passasse da una forma eroica a una forma classica.”(Roland Barthes, op cit.)
– Shrine of Resurrection. Già alle prime battute di questo pezzo e del disco ci si sente rinascere come nel peristilio di un vero e proprio santuario della resurrezione. Zanette profuma l’aria con l’incenso dei suoi ritmi veloci e, allo stesso tempo, delicati, tutti in punta di bacchetta che ricordano il Motorik dei Neu! in “Hallogallo”. E’ forse solo una suggestione germinata da quelle sonorità Krautrock che, prendendo spunto dalla tradizione classica nel rock nordamericano, seppero innovare la musica pop, il jazz e i generi apparentemente più lontani, influenzando la musica fino ad oggi e per tutti i giorni futuri.
Il trio di Ieraci dimostra fin da subito di saper divertire ed affascinare anche con tessiture sonore alla prima apparenza “easy listening” che ad un ascolto appena più attento rivelano la loro intrinseca raffinatezza compositiva ed esecutiva.
– Day Three: si svela con un delicatissimo gioco sulle pelli che sembrano quasi percosse con le dita con misteriosi effetti da tamburo sciamanico che invece sono sapientemente colpite con le bacchette dalla parte dell’impugnatura, l’effetto d’interrogazione prosegue con l’apparire degli accordi di Ieraci che tessono un atmosfera alla David Lynch per sensazioni talmente deliziose da nascondere perfettamente dietro una setosa cortina quel tanto d’inpertinente nostalgia che il solo del contrabbasso di Serafini disegna per poi dissolvere.
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– Welcome home, sembra voler indicare con il suo lieto benvenuto fatto di uno speciale dialogo tra gli strumenti, la vertigine del ritorno. Il tema letterario del Nòstos, lo sappiamo bene, ha origini davvero remote e coincide nella letteratura greca con il racconto del periglioso rientro a casa degli eroi dopo la guerra di Troia, origine di tutti i racconti che la nostra cultura può contenere e immaginare. La musica e il canto hanno da sempre accompagnato quei lontani racconti, permeando a tal punto il nostro immaginario che l’epica della frontiera americana con le sue strade e le sue musiche ne è stata profondamente permeata. Da Woody Guthrie ad Appalachian Spring di Aaron Copland, da Allen Ginsberg alla Rolling Thunder Revue di Bob Dylan, dal Blues del Delta alle spiagge dei Beach Boys è tutta una “nostalgia del ritorno” con una gran voglia di tornare a casa mentre ce ne stiamo andando.
– notebook, con la n minuscola, è un brano dedicato all’abitudine di tenere un taccuino per gli appunti che, paradossalmente, nel nostro tempo di device tecnologici, risulta innovativo quanto inconsueto. Dissoltasi o quasi la moda delle Moleskine di Chatwin e lo snobismo che l’accompagnava, resta nel nostro presente la rinnovata esigenza di ritrovare un rapporto anche fisico con la scrittura meno evanescente di quello digitale. Fissare un pensiero sulla carta è un esercizio che stimola le attività cognitive.
Come dice un’interessante ricerca dell’Accademia della Crusca: “A livello cerebrale esiste un legame tra attività manuale e area del linguaggio, che si influenzano reciprocamente. Nel tracciare manualmente i caratteri del corsivo al cervello del bambino è richiesto uno sforzo in più, la forma di ciascuna lettera deve essere continuamente plasmata perchè sia possibile legarla alle altre”(accademiadellacrusca.it 25/11/2020).
E’ intuitivo che per un musicista il rapporto tra manualità e produzione artistica e intellettuale è ancora più profondo e decisivo. Le abilità sulla tastiera sono una parte insostituibile della creazione di quei suoni che, legati tra di loro armonicamente, intervallati da silenzio e misura, vengono percepiti come musica. E’ uno dei pochi casi nei quali la materia e lo spirito trascendente ricercano evidentemente un’unità sublime e ineffabile, l’altro è la danza.
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Golden Hour: l’ora dorata nel senso di preziosa per la sua particolare luce è quella che Ieraci preferisce per uscire con la propria attrezzatura analogica a “scolpire” le proprie immagini fotografiche nel tempo e nello scintillio del “Plein air” come facevano gli impressionisti che hanno anticipato tutte le avanguardie artistiche del Novecento, compresa la musica jazz. Con le dovute differenze, lo stile chitarristico e compositivo di Ieraci può intuitivamente essere definito “pittorico” con la sua grande attenzione ai colori degli accordi, alle sonorità delle armonizzazioni nelle perfette linee prospettiche degli arrangiamenti.
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– My Nightingale, (il mio usignolo) è dedicato alla fidanzata del chitarrista, una persona davvero speciale, è un brano davvero carico di stupende esitazioni, di attese e di emozioni che valgono una vita. Val la pena di citare ancora una volta i celeberrimi, immortali versi di Shakespeare che nel suo Giulietta e Romeo fa disquisire i due amanti di etologia ed ornitologia con un gusto e un senso dell’immaginazione tutto medievale.
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Giulietta: Vuoi tu già lasciarmi? Il giorno è ancora lontano: fu la voce dell’usignolo, non dell’allodola che ti ferì, e che per tutta la notte canta là su quel melograno. Credimi, amore mio, fu l’usignolo.
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Romeo: Era l’allodola annunciatrice del giorno e non l’usignolo; vedi, amica mia, quelle scie di luce che, invidiose della nostra felicità comincino a imbiancare l’Oriente?…. Si, la luce cresce…e con essa le tenebre dei nostri cuori.
– Shorter days: quando le giornate si accorciano e la luce solare si smorza e sembra affiocarsi, risaltano maggiormente i chiaroscuri, le dissolvenze, i cangianti umori del tempo atmosferico. E’ l’ora della malinconia, quella durante la quale le angosce e il male di vivere sembrano accanirsi contro di noi. Non è lo stesso in ogni stagione ma non manca mai. Ieraci ha avuto l’intelligenza di non calcare la mano sul melodramma o sul cosiddetto “Spleen”, al contrario la sua musica è sempre lieta, ai limiti del gioioso, calibrata perfettamente dalle corde del contrabbassista Serafini baricentro di una sezione ritmica dalla fisionomia ben solida cui il batterista Zanette contribuisce in modo determinante con sapienza e intuito straordinario.
– The Relentless Mr. M: la voce del contrabbasso ci introduce e ci guida in uno spazio che ci sembra familiare nel quale ci accomodiamo con una certa tranquillità fino a che non ci troviamo soli in balia di un post-rock in grado di andare dagli accordi deformati di The man who sold the world versione Nirvana all’irruenza dei King Crimson di Thrak fino allo sferragliante virtuosismo di Steve Ray Vaughan, in una prodigiosa ricapitolazione di stili e forme musicali che nel breve spazio di qualche minuto percorre tutta la storia della chitarra elettrica degli ultimi quarant’anni e oltre.
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Etude: un pensiero in forma di frammento lungo la tastiera della chitarra, un minuto e diciannove di luce pura ed intensa che filtra dalle serrande abbassate come in certi giorni d’estate, come in quei momenti nella penombra in cui ci sembra di capire tutto talmente bene che ce ne dimentichiamo immediatamente, è “un lampo bianco al parabrise”.
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“Si tratta perciò di arte umanizzata, e può darsi che la Déesse segni un cambiamento nella mitologia dell’automobile. Fino ad oggi la macchina superlativa prendeva di più dal bestiario della potenza; qui diventa più spirituale e più oggettiva…eccola più casalinga meglio accordata a quella sublimazione dell’utensilità che si ritrova nelle nostre arti domestiche contemporanee.”…”Tutto questo significa una sorta di controllo esercitato sul movimento, concepito ormai come comfort più che come prestazione. Si passa da una alchimia della velocità a un assaporamento della guida”(Roland Barthes, op cit.).
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– Lowrider: Il disco si conclude idealmente con una Cadillac che fila verso un orizzonte tutto americano West Coast. L’ottimo Simone Serafini ha informalmente detto che tutto l’album si ascolta comodamente in macchina, con il gomito appoggiato fuori dal finestrino, gli occhiali da sole mentre il motore romba contento.
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E’ una definizione perfetta per nulla limitante, anche alla luce di tutto quello che abbiamo detto fino a qui, al contrario, per chi suona il jazz far apparire semplice e accessibile qualcosa di assolutamente raffinato e complesso è assolutamente un merito. Sono sempre le solite “gocce di pioggia sulle rose” e i “baffi dei gattini” delle nostre “Favorite Things”.
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Trovare il modo di rendere godibile le blue notes ibridandole contemporaneamente con quelle good vibes del pop-rock West Coast americano. E’ un disco pieno di luce, di immagini, un viaggio in automobile, verso casa, è un ritornare, un andare per andare, è una Corriera stravagante (Wayward Bus) dalla quale, per fortuna, è impossibile scendere una volta saliti.
Flaviano Bosco / instArt 2024 ©