There is no political solution
To our troubled evolution
Have no faith in constitution
There is no bloodly revolution
We are spirits in the material world
Udin&Jazz/Talk. Jazz against the machine:
Marco Pacini (giornalista e scrittore) Angelo Floramo (docente, medievista e scrittore) Claudio Donà (critico e docente di Storia del Jazz) Giancarlo Velliscig (direttore artistico di U&J) Andrea Ioime (giornalista e critico musicale).
Udin&Jazz comincia riappropriandosi degli spazi che gli appartengono per elezione. Corte di Palazzo Morpurgo a Udine, per tradizione uno dei luoghi della musica in città, è l’ideale per l’inaugurazione di un festival dal cartellone ricchissimo di appuntamenti non solo musicali ma di approfondimento, riflessione e condivisione sul significato del fare e ascoltare musica oggi. Perché di musica è anche bello parlare, confrontarsi, discutere e perfino accapigliarsi di tanto in tanto.
Il testo del brano dei Police, oltre ad arricchire questa recensione, è sembrato un’ideale cornice vista anche la presenza nel cartellone del festival di Steward Copeland.
Il tema della prima conversazione tra esperti davanti al pubblico è tra i più spinosi ed intricati dei nostri giorni e rispecchia un lungo dibattito culturale che risale agli anni ‘50 del secolo scorso con presupposti molto più datati temporalmente.
In sostanza, si tratta di rispondere alle seguenti “terribili” domande:
La tecnologia digitale delle comunicazioni, della cultura e dell’intrattenimento è davvero in grado di influenzare i nostri gusti e di omologarli a scopo esclusivamente di profitto commerciale? E’ possibile arginare il suo strapotere? L’intelligenza artificiale generativa sarà in grado prossimamente di scrivere una Divina Commedia con un semplice banalissimo input? Che senso ha la musica d’improvvisazione all’interno delle dinamiche del mercato della musica liquida?
Perché i giovani sono prigionieri dei loro devices e sembrano non essere più attratti dalla musica di qualità?
Sembrano domande oziose ma i dati ci dicono che siamo di fronte ad una trasformazione radicale della fruizione della musica e dei supporti multimediali. Come ha detto Claudio Donà sembra che il simulacro sia migliore dell’originale, il 67 per cento dell’ascolto musicale è in streaming, l’oggetto disco non ha quasi più significato se non come ornamento.
E già qui ci muoviamo su di un terreno minato. Per cercare di oltrepassarlo il primo riferimento d’obbligo sarebbe “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di Walter Benjamin che riflette su come le nuove tecniche per produrre, riprodurre e diffondere la cultura hanno radicalmente cambiato l’atteggiamento verso l’arte sia degli artisti sia del pubblico.
L’opera d’arte non è più unica espressione del potere di chi la possiede e la nega agli altri, ma è qualcosa di accessibile a chiunque. Perciò vale non tanto perché è solo per pochi a scapito degli altri, ma perché l’arte è diventata patrimonio comune, in un certo senso si è democratizzata e questo ha fatto tramontare giocoforza alcuni processi di produzione e consumo. Può piacere o meno ma è un fatto. Non si ascoltano più i rulli Edison da un bel po’, così come i dischi in vinile le musicassette e i cd non si possono più di certo considerare il supporto ideale per la conservazione e la fruizione della musica. La digitalizzazione ha certo segnato la fine progressiva di un mondo legato ad un certo tipo di ascolto privato e meditato, ma ha reso fruibile quello che un tempo era negato a molte più persone che possono ora goderne.
Il pubblico della musica d’avanguardia, d’improvvisazione o d’arte in generale è sempre stato relativamente limitato, e non può essere diversamente. La sperimentazione, l’avanguardia non può essere un fenomeno di massa, la fruizione della cultura è sempre stata da un lato popolare e dall’altro riservata agli stretti appassionati o agli specialisti.
Certo il neuro-marketing, la profilazione degli utenti social, il controllo delle dinamiche dei flussi a livello digitale e i nuovi sistemi di intelligenza artificiale condizionano non poco quel tipo di mercato. Quando si indica la luna c’è sempre qualcuno che guarda il dito. Il problema non è la tecnologia, per quanto pervasiva e sofisticata possa diventare, ma il sistema economico capitalistico e consumista che ci costringe a diventare merce in un infinito processo disumanizzante di produzione e consumo.
Come ha detto Giancarlo Velliscig il nostro problema non è la “macchina” che è semplicemente uno strumento, ma l’uso che se ne vuole fare. Il rischio è che si voglia sostituire l’intelligenza artificiale a quella reale. Il jazz in questo senso è un grido di libertà che vuole spezzare le catene anche quelle del digitale.
Pacini antepone al suo intervento l’ammissione di sapere molto poco di musica ma di intendersi già di più di intelligenza artificiale di cui tra l’altro ha potuto argomentare a fondo curando un pregevole volume della rivista aut-aut (Vol.392/2021: Come pensa la macchina?). Il suo intervento è partito da alcune considerazioni sul testo dell’informatico Jaron Lanier “Tu non sei un gadget” nel quale si esorta a difendersi dalla tecnologia digitale globalizzata dalle reti che sta trasformando l’umanità in un “esercito di zombi” per definizione schiavi e dementi. La super intelligenza dei computer che è principalmente un sistema di potere si sta impossessando di noi rendendoci obsoleti. Riconosce che anche questo è uno degli aspetti del selvaggio sistema economico-politico dal quale siamo fagocitati. Infatti, perché l’occidente possa bearsi di tutta questa virtualità ci sono miliardi di schiavi nei paesi meno sviluppati che vivono una realtà molto più dura.
Our-so called leaders speak
with words, they try to jail ya
They subjugate the meek
But it’s the retoric of failure
we are spirits in the material world
Nei successivi interventi sia Ioime che Donà riconoscono anche l’importanza cruciale della tecnologia per la diffusione della popular music nel secolo XX. Senza i dischi, la radio e tutto il resto, probabilmente il jazz come lo conosciamo nemmeno esisterebbe.
L’intervento di Angelo Floramo riporta alla concretezza il discorso che cominciava a farsi astruso e astratto, raccontando un aneddoto riguardante un suo allievo “scapestrato” che invece di seguire le lezioni, sotto il banco leggeva i libri di quei “degenerati” della Beat Generation. Il “Pierino” sembrava irrecuperabile e refrattario ad ogni tentativo di dialogo costruttivo. Il buon Angelo, che ne sa una più del diavolo, ospitando per una lettura poetica nientemeno che il grande poeta Jack Hirschman che ebbe tra i suoi allievi Jim Morrison, propose al proprio impenitente Pinocchio di partecipare all’evento accompagnando alla chitarre le letture poetiche. Fu così che il burattino di legno si trasformò in bambino sempre pestifero ma almeno di carne e ossa e senza fili.
A parte l’aneddoto edificante, se ne può trarre davvero un insegnamento che riassume tutte le tematiche del dibattito sul quale avremo occasione di ritornare. Se i giovani non si interessano alla buona musica è solo perché la nostra società se ne cura esclusivamente come consumatori. Agli adulti non interessa per nulla avere un dialogo paritario con loro, ascoltarli, condividere, trasmettere informazioni.
Le subdole seduzioni della tecnologia hanno effetto su di noi perché è facile cedervi e noi non vogliamo far alcuna fatica per capire, metaforicamente preferiamo del cibo già masticato da altri allo sforzo di doverci cucinare le bistecche.
Tutte le questioni sul dominio della tecnica sull’uomo sono state già abbondantemente sondate dalla letteratura d’anticipazione (si vedano La saga della Fondazione di Asimov o le opere di P.K Dick) e dalla Beat Generation in particolare da William S. Burroughs.
Nel 1964 Umberto Eco pubblicò il suo classico Apocalittici e integrati (Bompiani) nel quale si analizzavano le ragioni degli entusiasti della tecnologia contrapposti a quelle dei catastrofisti. Soprattutto nell’ambito dei mezzi di comunicazioni di massa il problema non è la sofisticazione delle tecnologie ma il loro utilizzo strumentale da parte del sistema consumistico che intende replicare all’infinito dinamiche sociali classiste e utilitaristiche.
Altri interessantissimi spunti per una discussione sull’argomento potrebbero essere trovati Nel Manifesto cyborg. Donne tecnologie e biopolitiche del corpo (Feltrinelli, 1995) oppure nell’ultimo saggio di Remo Bodei, Dominio sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale (Il Mulino 2019)
In conclusione, volendo sintetizzare un dibattito a proposito di una questione intricatissima e di non facile soluzione possiamo riportare le parole di Silvia Colle che magistralmente coordina e presenta molti degli eventi del festival: “Se vogliamo davvero capire cosa vogliono i giovani, ascoltiamoli”. Un semplice gesto di sincera apertura verso l’Altro può essere davvero risolutivo, perché, in fondo, non siamo altro che “spiriti in un mondo materiale”.
Were does the answer lie?
Living from day to day
If it’s something we can’t buy
There must be another way
We are spirits in the material world
© Flaviano Bosco – instArt 2023