Nel breve spazio di qualche settimana i vari festival musicali della Regione hanno proposto musicisti di livello e di fama planetaria dei generi più diversi e non è un modo di dire o la solita esagerazione strapaesana.
Basta scorrere i nomi: Steve Hackett, Pat Metheny, Nick Mason, Stewart Copeland, senza contare i padri del Punk a Pordenone Blues (Buzzcocks, The Stranglers) e poi ancora Peter Erskine, Ben Harper e via di seguito per un’offerta musicale decisamente eccezionale.
Marc Ribot non è certo da meno, non sono molti nel mondo a potergli contendere il primato nel chitarrismo sperimentale; ormai è un musicista di lungo corso, con centinaia di incisioni alle spalle e con altrettante prestigiose collaborazioni, tra cui quella decennale con John Zorn riassumibile, giusto per citare un disco tra i tanti, nel clamoroso live: “Electric Masada at the Mountains of Madness” (2005). Negli ultimi anni il chitarrista ha dimostrato che la sua vena creativa è tutt’altro che “stagionata”, al contrario non è mai stata così luminosa, il suo astro è decisamente in crescita così come la sua militanza politica contro questo “porco, porco” mondo in cui sembrano contare solo il profitto e il sopruso.
Il suo album: “Songs of Resistence 1942-2018”, con tra le altre “Bella ciao” cantata da Tom Waits in italiano masticato e sputato, è un capolavoro che ha scosso le coscienze di molti e ancora lo sta facendo. Dopo quella di Woody Guthrie cantore degli ultimi e più miserabili, c’è un’altra chitarra che continua ad uccidere fascisti con la forza della musica e se non basta “spaccata sulla testa” con tutto il rispetto per la chitarra.
“In queste canzoni l’accettazione della fragilità umana, del fatto che – dobbiamo piangere – anche quando chiamati a lottare, ai miei occhi è prova di una forza enorme. La prospettiva di una bellezza oltre la vittoria è anche un segno di speranza, un monito per ricordarci che almeno abbiamo qualcosa per cui vale la pena combattere”.
Questa citazione, in origine contenuta nel libretto dell’album è ora inclusa in un’eterogenea raccolta di suoi scritti, appena tradotta e pubblicata in Italia dal titolo: “Nelle mie corde. Storie e sproloqui di un chitarrista noise” (BigSur 2023).
Per cercare di comprendere la complessa, stratificata e imprevedibile poetica del chitarrista, oltre alle sue tante incisioni, si aggiungono anche quelle che appaiono come bizzarre riflessioni a volte stralunate ed enigmatiche, altre perfettamente quadrate e logiche. Sono testi che sembrano appunti di viaggio scritti in fretta e furia tra un concerto e l’altro come una sorta di surreale diario. Ribot ha un gran talento anche come scrittore ed è in grado di inseguire e fissare emozioni libere così come fa con la sua chitarra.
Bene hanno fatto gli organizzatori di Musiche dal Mondo/Glasbe sveta (Circolo Controtempo e Kud Morgan) a volerlo nel cartellone del loro prestigioso festival transfrontaliero che dove qualcuno vede confini ha sempre visto amici che attraverso la musica diventano fratelli. E’ esattamente lo stesso spirito che innerva da sempre l’opera del chitarrista che non vuole etichette, che non rispetta limiti o barriere e che è “sconfinata” e libera per definizione.
Il salone di Villa Attems a Lucinico è un ottimo luogo per ascoltare un concerto, un po’ meno per “vederlo” visto che non c’è un vero e proprio palco e oltre le prime file i musicisti scompaiono alla vista. A volte è però proprio il caso di chiudere gli occhi e concentrarsi solo sulla musica oppure alzare lo sguardo verso l’alto posandolo sulle travature e le capriate del soffitto con i loro “monaci, saettoni, staffe, contro-catene”, lasciandosi portare dalla musica. Anche se può sembrare solo una farneticazione, gli elementi architettonici e le strutture musicali sono parenti stretti e a volte è bello fantasticarci sopra.
Come diceva Göethe: “La musica è architettura svolta, mentre l’architettura è musica pietrificata”.
E’ solo un altro modo, non meno efficace di altri di accostarsi al mistero dei suoni che comunque resterà sempre tale.
Anna Garano: Laureata in filosofia con una tesi sulla musica contemporanea e specializzata in chitarra flamenco, ha avuto il non facile compito di aprire il concerto del celebre musicista americano. Il primo brano proposto non lascia alcun dubbio con atmosfere della Spagna sefardita, moresca e andalusa. Il flamenco, al di là della sua spettacolarizzazione da marketing turistico, ha un’origine intima e dolorosa, una sorta di emotiva lamentazione con una precisa liturgia scandita dal modo a volte irruento di suonare gli accordi, dal battere dei piedi e delle mani come accompagnamento ed infine dal ballo.
Garano rispetta tutti questi elementi, in un modo o nell’altro, aggiungendovi un atteggiamento quasi distaccato e distante e un tocco personale nelle variazioni ritmiche. Alla melodia pura e semplice preferisce i toni scuri, il senso dell’attesa e dell’inquietudine. Riesce a mantenere il medesimo timbro drammatico dell’espressione per tutta l’esibizione, dilatandone e distendendone l’effetto fino alla massima “estenuazione”.
La chitarrista e compositrice italo-slovena possiede uno stile intimo e allo stesso tempo nervoso, i suoi arpeggi spezzati danno l’idea di un continuo rimuginare e ruminare. La Garano non si concede per nulla al suo pubblico, nemmeno per un sorriso, preferisce accordare continuamente il suo strumento concentrata completamente sull’esecuzione.
Sia detto senza alcun giudizio di merito, anche perché ce ne sono fin troppi di semplici intrattenitori tra i musicisti che si perdono in convenevoli, memorie, aneddoti e spiritosaggini invece di far sentire quanto valgono con lo strumento in mano, ben vengano gli Straight musicians concentrati sul loro strumento e non sull’ingraziarsi il consenso del pubblico con i trucchetti retorici.
Garano non è certo tra questi, la sua esibizione viaggia verso altri percorsi tra suggestioni tristi e dolorose, vive in un altro tempo tanto che ad un certo punto quasi accortasi della presenza del pubblico ha chiesto con una voce flebile e distratta che qualcuno l’avvisasse quando doveva smettere oppure suonare un altro pezzo. Diciamo che questo non depone immediatamente a suo favore.
Nel finale, accenna l’aria di Cavaradossi da Tosca, una semplice citazione di solo qualche accordo che però ha dato il tono a tutta l’esibizione anche perché subito dopo ha continuato con qualcosa di talmente prevedibile da ricordare il sound dei peggiori Gypsy Kings (ognuno ha i propri riferimenti culturali) non esattamente un passaggio elegantissimo.
Appena pizzicato l’ultimo accordo, senza prendersi nemmeno gli applausi, se n’è scappata via: Svanì per sempre il sogno mio d’amore…l’ora è fuggita, e muoio disperato…
Marc Ribot. La celebre battuta: “Un chitarrista passa la metà della sua vita ad accordare la sua chitarra e l’altra metà a suonarla scordato” non ha quasi senso se applicata interamente al musicista americano. E’ talmente imprevedibile che spesso non è nemmeno possibile capire in che tonalità stia suonando, senza parlare del genere che non è mai possibile “tarare” o anche solo indovinare. Chi si aspettava il cosiddetto Noise al concerto di Villa Attems, è rimasto totalmente spiazzato da un’esecuzione con la chitarra acustica dai toni riflessivi e, in alcuni attimi, perfino pacati. E’ vero che non sono mancati momenti “furibondi”, aspri, ruvidi e scabri, ma il tono generale è stato soprattutto temperato e pensoso.
Ha, infatti, iniziato morbidissimo e leggero anche se il suo tocco tendeva a complicarsi, a eccedere nei timbri e nei toni in una continua variazione sul verticale, dall’intimità di un sussurro, al grido di dolore; mentre fuori dalla sala infuriava un temporale di fulmini e tuoni che regalava un senso di tregenda a tutta la situazione con un continuo brontolio di esplosioni sorde. Gli accordi sghembi spesso aggressivi non prescindevano dallo scroscio della pioggia, anzi sembravano quasi unirsi ad essa approfittando della ritmica imperiosa dell’acqua lasciandosene guidare nell’improvvisazione da un flusso di pensieri scomposti che si facevano via via più erratici e convulsi.
Ha suonato a testa bassa spedito e completamente rapito, posseduto dal suo demone, del tutto introspettivo in alcuni momenti, veloce e sguaiato nell’attimo immediatamente successivo.
Scrive Lynne Tillman nell’introduzione alla raccolta di “sproloqui” del chitarrista newyorchese:
“Nel tempo, conoscendo Ribot dagli anni Ottanta, l’ho visto e sentito suonare molte volte, e l’ho osservato da vicino. Si tiene la chitarra stretta al corpo, di solito lascia cadere la testa sullo strumento. Si ripiega talmente tanto che la chitarra quasi non la vedi più: così si fondono, lui e lo strumento, formano un corpo nuovo che vive in un mondo tutto suo, ed è li che vuole restare. Non vuole guardare noi, non suona perché un pubblico lo ascolti ma più che altro per ascoltare quello che sta suonando”.
Lo stile di Ribot è davvero indefinibile, per quanto è mutevole fino ad essere del tutto imprevedibile, si riconoscono una serie di progressioni che si susseguono, fughe in avanti e arretramenti, certo ogni tanto si sente un qualche riferimento al blues del Delta, ma solo come frammento di memoria ancestrale, a tratti c’è dello swing e un pizzico del Manuche Django Reinhard in una delirante versione di “Summertime” contaminata con tutta la storia della sei corde da Orfeo a Matteo Mancuso.
Un sorso d’acqua per il caldo che fa e via per un’altra strada selciata di rumori, stridii, battute, sfregamenti ad inframmezzare accordi completamente slegati tra loro. Ma Ribot non ha dato per nulla l’impressione di giocare ad essersi perso, il suo non è virtuosismo atletico e fine a se stesso, è lontanissimo dalla mera esibizione muscolare di tecnica sopraffina con o senza agilità sulla tastiera.
Il più delle volte è sembrato picchiare sulle corde più che pizzicarle, non c’è calcolo apparente nel suo ricercare sulla tastiera che è sempre riflessivo e significativo senza mai annoiare.
Mentre suona è davvero assorto e i suoi accordi sono davvero un flusso di coscienza continuo e in divenire. Per cercare di intuire quello che gli passa per la testa in quei momenti sarà utile concludere queste righe facendo ricorso ad un suo appunto personale sul “diario di viaggio” cui abbiamo già fatto ricorso più sopra.
Nel maggio 2019 il chitarrista suonò al festival Ravenna Jazz, potrebbe essere proprio in quell’occasione che scrisse questi brevi affascinanti appunti:
“Oggi ho passeggiato sulla spiaggia, al Lido di Vattelappesca, vicino a Ravenna. Ancora adesso, non riesco a passeggiare sulla spiaggia senza ricordarmi del brivido che provavo quando mi imbattevo in una conchiglia. Le conchiglie sono state il mio primo oggetto di desiderio, la mia prima ricchezza, il primo tesoro. E a differenza dei soldi che avrei provato ad accumulare più avanti, loro erano bellissime già così.
Ancora oggi avverto qualche brivido quando le trovo lungo la riva, sempre bellissime, libere, che aspettano solo di essere raccolte.
Ma di notte non le sogno più, le conchiglie. E non le colleziono.
Adesso nel mio secchiello azzurro accumulo solo fantasmi di ricordi guasti di conchiglie, e li dispongo in fila sul tavolo, ancora scintillanti, nella vana speranza che condividerai il mio stesso entusiasmo, mentre ti chiedo:: “Visto?…Hai visto che ho trovato?… Hai visto cosa ti ho portato?”.
© Flaviano Bosco – instArt 2023