Si conclude con questa serie di impressioni sulla retrospettiva dedicata al cinema della Corea del Sud e altro, lo spazio dedicato dalla nostra rivista all’ultima edizione del festival del cinema asiatico di Udine.

Quello che davvero ha colpito gli spettatori più attenti, di tante straordinarie pellicole presentate in versioni restaurate dalla cineteca nazionale di Seoul, è stata l’insospettabile affinità tra la nostra cinematografia e quella del paese del Calmo Mattino.
Come già dicevamo nella recensione precedente, il cinema neorealista è stato decisamente un punto di riferimento per il cinema coreano senza dimenticare il noir americano, il polar francese; l’ipotesi forse un po’ azzardata è che due cinematografie così distanti culturalmente in realtà, hanno avuto, nel bene e nel male, una storia comune.
I molti anni di dominazione della penisola coreana da parte dell’impero giapponese corrispondono in qualche modo al fascismo italiano; l’atroce guerra di liberazione dal nazifascismo, può essere paragonata, mutatis mutandis, alla guerra fratricida tra le due Coree. Il dopoguerra, in tempi diversi, se si limita il paragone alla Corea del sud, ha significato per entrambi i paesi “l’occupazione” americana con l’imposizione di modelli culturali praticamente identici che hanno fatto piazza pulita della tradizione per omologare e, uniformare e conformare le differenze all’unico modello dell’american dream.
Il cinema è stato uno strumento di propaganda cruciale per mettere in atto tale disegno cui poi hanno fatto da corollario gli altri media: radio, libri, giornali, riviste, televisione e poi finalmente i social che hanno portato il potere di condizionamento e di manipolazione dei desideri e del consenso all’ennesima potenza.
Si tenga ben presente per il paragone anche la geopolitica della “Cortina di ferro” che per l’Italia ha significato la cicatrice non ancora completamente rimarginata del confine orientale e dell’Adriatico amarissimo e per le due Coree la piaga suppurata tutt’altro che rimarginata del 38° parallelo e della dittatura militare. Non si pensi a nessuna fantomatica “teoria del complotto”, basta semplicemente leggere per quanto riguarda l’Italia il “Piano di rinascita nazionale” della Loggia massonica Propaganda 2 e poi trarne le conseguenze. Se a questo poi aggiungiamo le riflessioni dell’ultimo disperato Pasolini sulla “mutazione antropologica” del popolo italiano abbiamo tutti gli elementi per capire come si sopravvive in una “dittatura morbida” e per fare i paragoni con le dovute differenze con la Corea del Sud.

Seguendo il filo dei pensieri e un fatto di cronaca degli ultimi mesi si può fare un altro spericolato confronto tra le colonie americane d’Italia e di Corea del sud. Nel divertente, ma basato su fatti storici comprovati, “La battaglia della merda” di Wu Ming 2 e Giuseppe Palumbo (Minerva, Bologna 2020) si racconta e illustra come nel 1334, come certifica anche la Cronica dell’Anonimo romano, a Bologna venne combattuta una battaglia a colpi di un’arma batteriologica primaria.
Il legato pontificio Bertrando del Poggeto si era asserragliato nell’imprendibile Rocca di Galliera per stanarlo “Li Bolognesi Traboccavano lo sterco dentro dello castiello e valestravano”. Come si usava all’epoca, gli assedianti dopo aver tagliato le risorse idriche al castello, l’avevano bersagliato per giorni con il contenuto di tutte le latrine e i letamai della città, lanciando i fecali proiettili con ogni mezzo dalle fionde ai trabucchi. Il risultato fu che gli assediati, non avendo da bere e da lavarsi e vedendo il loro fortilizio continuamente contaminato da tutta quella lordura accettarono un armistizio.
Devono aver pensato esattamente alla medesima strategia i dirigenti di partito della Corea del Nord quando un paio di mesi fa, in risposta ad un bombardamento di volantini anticomunisti sparati da mortai verso il loro territorio, hanno cominciato a rispondere al “fuoco nemico” inviando centinaia di palloni sonda con attaccati grandi sacchi pieni di immondizia, letame, animali morti e feci umane, causando anche parecchi grattacapi all’aviazione civile e reali pericoli di contaminazioni.
Il viscerale, criminale anticomunismo da una parte e, dall’altra, la puerile difesa ad oltranza di un furibondo e omicida regime dittatoriale hanno finito per condannare due paesi con una cultura millenaria niente meno che alla “coprofagia”, quasi un simbolo per i nostri tempi fuori di sesto.
Di seguito alcune suggestioni da altre pellicole della retrospettiva che raccontano origini e sviluppi di questo enorme condizionamento culturale e sociale che come dicevamo più sopra ci riguarda molto da vicino. Alcune brevi riflessioni saranno dedicate ad un film indonesiano in cartellone e all’incontro con il grande regista cinese Zhang Yimou.
Piagol di Lee Kang-Cheon, Corea del Sud (1955, 109′)

Drammatico e a tinte fosche fin dai titoli di testa con una colonna sonora evocativa e inquietante. Uno dei film di propaganda anti comunisti più feroci e violenti che si siano mai visti. Una pattuglia partigiana comunista della Corea del nord braccata si aggira oltre le linee nemiche, nelle aspre ghiacciate montagne di Jirisan; i feriti non possono essere soccorsi e vengono finiti sul posto. Tra le più determinate e fanatiche le combattenti descritte come spietate amazzoni al completo servizio, in tutti i sensi, del loro capitano e del partito..Sono eroi alla disperata armati alla bell’e meglio con fucili, mitra e pistole di fabbricazione cinese (Mitra type 100 PPSH-41 e Mitra PPS 43 sovietico, si vede anche una carabina americana M2 1950, probabile bottino di guerra). Nella concitazione della fuga un partigiano ferito perde il proprio fucile e viene giustiziato sul posto con ferocia e crudeltà inaudite come traditore, finito a colpi di pietra. Aspettano le truppe fresche cinesi che non arriveranno mai sono assolutamente fanatici. La vita è durissima, sono isolati e senza rifornimenti nella gola di Piagol.

Il capitano abusa sessualmente e con regolarità delle sue soldatesse, per lui quel tipo di servizi sono doveri verso il partito e loro devono obbedire. Si vanta anche di aver mangiato, come monito per tutti gli altri, le interiora di un suo soldato “reazionario” che voleva arrendersi, lamentandosi solo che erano mal condite. Alcuni inviati del comando centrale li raggiungono e premiano il loro fanatico eroismo con un maiale che, naturalmente, finisce allo spiedo.
Attaccano il villaggio di Namsan che definiscono come un covo di reazionari. Alcuni dei partigiani sono originari proprio di quel villaggio e gli viene ordinato di non avere nessuna pietà, nemmeno per i parenti. Devono rubacchiare delle provviste  per sopravvivere. Furtivi s’aggirano per il paese allo scopo di razziare i magazzini. Massacrano barbaramente i paesani, in una scena si vede un bambino che succhia dal seno della madre morta.
Il più giovane dei partigiani assiste impietrito alla morte della madre uccisa da un suo compagno. “Era una reazionaria” dice Il ferocissimo capitano del manipolo. In nome del popolo e del partito, una delle partigiane costringe a uccidere il capo-villaggio da due paesani tremanti che lo infilzano con delle e improvvisate canne di bambù appuntite. Questi prima di morire gli urla contro: “E’ questo il comunismo? Uccidere degli innocenti?”.
Il capo villaggio era lo zio del giovane che ha visto uccidere la madre, il capitano che lo ritiene un codardo senza spina dorsale, lo condanna a morte, sentenza che esegue lui stesso con la solita bestiale cattiveria. “Ricordatevi che questa è la volontà dell’URSS”.
I partigiani comunisti vengono a sapere che il loro quartier generale è stato distrutto dall’esercito nemico. Non hanno più speranza di ricevere aiuti, sono completamente tagliati fuori e la loro è diventata una missione suicida. Ogni personaggio del manipoli è descritto come brutale, insensato assassino e violentatore in nome del partito. Durante una delle sequenze di bestialità più inconcepibili, una delle combattenti viene violentata e assassinata da uno dei suoi compagni di pattuglia, mentre un altro assiste nascosto. Quest’ultimo a propria volta s’impossessa del cadavere per abusarne e poi disfarsene.
In sostanza lo svolgimento del film racconta della follia di una pattuglia suicida, i cui membri finiscono per uccidersi tra loro per cupidigia; sono ritratti né più né meno che come animali alla macchia che bevono nelle pozze d’acqua e mangiano famelici con le mani.
E’ davvero un film di propaganda della più becera  che mira a rappresentare i nordcoreani comunisti come belve disumane senza alcuna compassione, né per se stessi e nemmeno per gli altri. Sono del tutto incapaci di gestire emozioni e sentimenti, uno di loro dichiara: “Ho perso la mia umanità molto tempo fa”. Quello che spaventa del film è che nemmeno coloro che lo hanno pensato hanno saputo dimostrare la benchè minima empatia. Per di più, la commissione di censura sudcoreana dell’epoca, lo ritenne fin troppo indulgente nei confronti dei nemici settentrionali.
Durante tutto il film non si vedono mai i combattenti sudcoreani, si vedono solo cadere le loro bombe. Il capitano, che finisce per cadere sotto una raffica di mitra, prima di morire estrae dal taschino con le mani insanguinate il certificato di medaglia di merito che il partito gli aveva conferito per le sue azioni spietate e inumane, unico scopo della sua esistenza. Del “Mucchio selvaggio” alla fine del massacro rimane solo la partigiana che sembrava più ortodossa, e che, invece, si è rivelata la più furba, finendo per tradire tutti i suoi compagni e dimostrando di volersi consegnare al nemico, non tanto per espiare le proprie colpe, ma per spirito animale di sopravvivenza.
Madame Freedom di Han Hyeong-mo, Corea del Sud (1956, 126′)
Una dolce canzone francese ci accompagna nei titoli di testa, introduce gli spettatori in un mondo, in difficile equilibrio tra la modernità occidentale e valori orientali. Il problema è: come può la moglie di uno stimato professore di letteratura, essere fedele e devota ai propri doveri matrimoniali e gestire anche un negozio di articoli occidentali? Quella rappresentata nel film è una famiglia piccolo borghese, nel quale la donna cerca di emanciparsi nel disastrato dopoguerra coreano e fallisce miseramente. A rendere insensata la sua crescita personale soprattutto le perverse seduzioni della nuova cultura consumistica, riassunte nello stereotipo di un giovinastro suo vicino di casa che ascolta il jazz e veste all’americana che la turba e sembra la voglia concupire. Il marito noioso e studioso le fa fare una vita che ritiene sacrificata e da reclusa, che però risulta consona al suo status di donna borghese in una società rigidamente confuciana nella quale la moglie fa semplicemente parte dell’arredamento e dei decori della casa. In questo caso però, la moglie che si era dapprima impiegata come commessa in un negozio di costosi articoli occidentali, riesce per la sua dedizione e competenze a diventarne la direttrice.
Le donne dei notabili hanno creato un proprio club nel quale mangiano cantano e spettegolano che però non è per nulla un luogo d’emancipazione sociale, ma una sorta di “recinto” nel quale le donne possono dedicarsi all’unica occupazione che la società davvero gli permette: la maldicenza.
Il giovinastro riesce a circuire la pudibonda madre di famiglia e, ad insaputa del marito, la porta a ballare al night club tutto all’occidentale con ballerina super hot come nell’italietta degli stessi anni. La band molto simile a quelle di Carosone o Jimmy Ricordi, fa ondeggiare tutti i ballerini a ritmo di mambo,  L’omologazione culturale imperialista fa davvero orrore e ha sradicato culture millenarie sostituendole con i prodotti del supermercato e oggetti di consumo culturale fatti in serie.
La storia raccontata da questo film è del tutto paradigmatica: la timida madre di famiglia è alla scoperta delle perversioni consumistiche simboleggiate dalla Coca Cola, a ritmo di blues, valzer, mentre il suo figlioletto langue abbandonato nella casa paterna.
Il marito professore di lettere, barboso e ipocrita, nel frattempo, ha una relazione con una bella, giovane e disinibita dattilografa, mentre la moglie bottegaia continua ad andarsene a ballare con un paio di corteggiatori: “Che divertimento sarebbe ballare con mio marito?”
C’è anche, sottotraccia, una storia di “puffi” all’italiana, come ne “La cambiale” di Camillo Mastrocinque (1959). Alcuni titoli di credito fasulli vanno a danno di una  donna che ha avviato ingenuamente un club del risparmio tra amiche, una specie di “catena di S. Antonio” ; il capitalismo per i poveracci si riduce alla solita miserabile truffa in cui finiscono per perdere tutti.
La signora dei “puffi” sconsolata tenta più volte il suicidio per la vergogna di non poter più restituire i soldi che le erano stati affidati e che ingenuamente ha versato,  a propria volta, ad un “investitore” che si è rivelato nient’altro che un truffatore. Prima tenta di buttarsi sotto un treno in corsa alla stazione, ma all’ultimo momento le manca il coraggio. Più semplice avvelenarsi durante una festa danzante delle mogli dei potenti e stramazzare davanti a tutti sulla pista da ballo, mentre come un incubo, risuona la canzone “Besame Mucho”.
E’ un mondo spietato e maschile che fagocita le donne apparentemente “libere” considerandole solo come ornamenti.
Molte sequenze sono ambientate in una caffetteria che potrebbe essere quella di una qualsiasi città europea; anche i modelli e i luoghi di socializzazione nella civiltà della globalizzata, devono diventare, volenti o nolenti, i medesimi di quelli occidentali: non luoghi disanimati e disumanizzanti.
Il figlio della coppia borghese risente della vita sociale della madre e la cerca mentre lei amoreggia con il giovinastro. Come diceva in Italia, nello stesso periodo, quella bambina con la voce di Luciano Tajoli: “Ella nel salotto profumato, ricco di cuscini e di seta, porge il labbro tumido al peccato, mentre la bambina indiscreta, socchiude quell’uscio, pieno d’odor di Coty – Mamma – mormora la bambina, mentre piena di pianto agli occhi – Per la tua piccolina, non compri mai balocchi, Mamma, tu compri soltanto i profumi per te”
Finisce che l’adulterio della moglie del prof viene scoperto e la sua onorabilità e affidabilità come commerciante, perduta.
In una scena finale altamente drammatica, la donna finisce a vagare sola, piangente e vinta nella notte durante una nevicata. E’ pentita dall’aver  abbandonato, spinta dalla vanità, la propria famiglia venendo meno ai propri doveri di madre. Torna a casa, contrita e in lacrime, chiede perdono, ma il marito inflessibile la vuole ripudiare, l’uomo finisce per cedere solo perchè intenerito dai singhiozzi del bambino che ad ogni costo, rivuole la mamma. La donna, infine, abbraccia il proprio piccolo piangendo e gli dice: “E’ tutta colpa della mamma”. Quando succede questo, il patriarcato in salsa capitalista che considera la donna come merce, va a braccetto con quello confuciano che la considera un mero oggetto in balia dei desideri del pater familias.
Money di Kim So-dong, Corea del Sud (1958, 124′) 
La prima sequenza vede un treno a vapore nella campagna coreana con alle spalle le montagne, che s’avvicina e sbuffa, è metafora dell’inarrestabile modernità che tutto investe e travolge. In uno dei vagoni, un soldato torna al paesello dalla guerra a compiere, finalmente, il proprio destino di contadino o almeno così s’illude. Alcune sequenze riassumono il contesto sociale del villaggio rurale: i più poveri fumano la pipa, i ricchi le sigarette col bocchino d’avorio. Sul treno c’era anche un commerciante , è un grassatore paesano che compra beni superflui in città per quattro soldi e li rivende come esclusivi ai poveri contadini ignoranti a prezzi proibitivi. Una dolce ingenua ragazza del paese è da sempre innamorata del soldatino, lo ha aspettato per lungo tempo, vorrebbe sposarlo ma è troppo povera.
“Il denaro non potrà mai comprare la brezza che soffia nel mio cuore” I contadini sono costretti a vendere il raccolto al grassatore prima ancora di averlo falciato indebitandosi per poter comprare i beni di lusso che lui stesso gli propone e che a loro, in realtà, non servono a niente ma che desiderano moltissimo. La creazione di un desiderio indotto verso le merci futili è uno dei meccanismi che muovono la “morbida macchina” del consumismo.
Il grassatore è anche una sorta di locandiere e segretamente gestisce una bisca nella quale i poveri contadini già stremati dai debiti finiscono per vendersi persino i figli. Per giocare si indebitano ancora di più con lui che gli fa dei prestiti con cambiali in garanzia. Un agente di polizia mite e buono in bicicletta con i guanti bianchi di tanto in tanto passa per esortarli ad obbedire alle leggi dello stato e a comportarsi da buoni e avveduti cittadini laboriosi.
La coppia dei due giovani che continuano a sognare nonostante tutto rappresentano la speranza del paese ma anche per loro finisce male. Il padre di lei indebitato fino al collo continua a giocare perdendo fino all’ultimo centesimo presente e futuro. Il locandiere, come di prammatica, è anche un esperto baro, così nessuno vince mai nella sua bisca per quanto si possa illudere. Potrebbe sembrare una storia tratta dal ciclo dei vinti di Verga, per quanto i miserabili si sforzino di uscire dalla loro terribile condizione c’è sempre qualcosa che rovina ogni loro progetto, sembrano sempre destinati a rimanere nella loro condizione di inferiorità ed è proprio così perchè quel tipo di sistema economico che ormai domina tutto il mondo non è per nulla fatto per dare ad ognuno che s’impegni le giuste possibilità com’è nelle fanfaluche che ci ammanniscono i fantomatici “liberisti”, è un’economia che si basa sulla schiavitù dei tanti e il privilegio di pochissimi. Tra i vari episodi c’è anche quello del contadino con i sudati risparmi nel fazzolettone che dalla campagna si reca a Seoul per fare degli investimenti. Gli hanno detto che se compra una certa quantità di merci al mercato nero poi può rivederle facilmente garantendosi un forte guadagno. Cercando informazioni al mercato della capitale estrae più volte il mazzo di soldi dalla tasca tanto che un truffatore che lo teneva d’occhio comincia a seguirlo, proprio come nella novella di Andreuccio da Perugia del Decameron di Giovanni Boccaccio. All’osteria poggia il fazzolettone con i soldi sul tavolo. Una donna procace in combutta con il malandrino finisce per derubarlo sostituendo della comune carta di giornale. Il contadino nemmeno controlla e la triste sorpresa sarà solamente ritornato a casa.
Potrebbe sembrare un film sulle disgrazie dei poveri che cerca di avviare l’empatia verso gli strati della popolazione più fragili e sottoposti,ma niente di tutto questo corrisponde a verità. Il lungometraggio è assolutamente classista e ritrae i poveri solo per ridicolizzarli dimostrando che è solo colpa della loro indolenza se non migliorano le loro condizioni. Sono propriamente degli idioti senza speranza alcuna. Nel film non viene mossa alcuna critica al sistema che è assolutamente “democratico” basta saperne approfittare. I poveri, insomma, sono stupidi. Anche il fantomatico sistema virtuoso dell’economia rurale voluto dallo stato e garantito come perfettamente equilibrato è destinato al fallimento perchè i contadini sono solo degli spregevoli assassini, dementi, ignoranti, con mogli succubi e servette procaci e sempliciotte insidiate da bruti.
L’unico a comportarsi bene è il reduce, la disciplina militare e la grande guerra patriottica gli hanno insegnato i veri valori facendolo diventare un vero uomo ed emancipandolo dallo stato semi ferino nel quale era cresciuto. La città viene rappresentata come un luogo tentacolare, ma comunque migliore e più desiderabile dell’arretratezza della campagna.
Il protagonista dopo essersi fatto rubare i soldi in città ha una colluttazione sempre per una questione di soldi con il locandiere-strozzino che finisce per puro caso con una coltellata alla schiena. l’ucciso aveva per altro appena violentato la figlia del protagonista promessa sposa del reduce sul quale finisce erroneamente la colpa: “Non siamo stati ne tu ne io, è stato il denaro ad uccidere.
Nella scena finale mostra il contadino che si è giocato tutto, che ha ucciso, che ha visto disonorare la propria figlia e la propria esistenza, in ginocchio sui binari, mentre piange e maledice il proprio destino. Il treno sbuffando continua la propria corsa, e intanto  forse lui spera che ne arrivi un altro a porre fine alle sue disgrazie.Rosy Life di Kim Hong-joon, Corea del Sud (1994, 94′)

Nel quartiere popolare e degradato di Garibong-dong di Seoul tra spogliarelliste, giocatori d’azzardo, gangster, i più sfaccendati si ritrovano in una strana fumetteria aperta tutta la notte. E’ gestita da Madame un’intraprendente ragazza che con il suo “caratterino” riesce a tenere a bada i perdigiorno che frequentano il suo locale. E’ un’umanità emarginata, variegata e vinta della metropoli, in realtà innocua che cerca un luogo nel quale sentirsi accettata; una piccola, accogliente comunità che gli restituisca un po’ di quel amichevole calore familiare che la metropoli ha fagocitato. La vicenda è ambientata nel 1987, anno di grandi proteste studentesche e sociali nel paese che soffriva ancora degli strascichi della lunga dittatura militare (Guerra fredda, questione del 38° parallelo, repressione poliziesca). I notiziari televisivi nel film aprono delle finestre d’informazione su quello che sta succedendo fuori dalla fumetteria, mentre i protagonisti trascinano le loro vite in una sorta d’ovattata inedia. Oltre a Madame, protagonisti del racconto sono un dolce scrittore alle prime armi segretamente innamorato di lei; il violento e rude killer di una gang e un militante dei gruppi di protesta. Il killer mentre il locale è vuoto, violenta Madame,in una terribile sequenza tutta sul volto di lei che, atterrita e violata subisce l’abuso. Il gangster attaccabrighe continua a frequentare il locale anche dopo il crimine e lei non lo denuncia, anzi dopo un po’ s’innamora di lui, in uno degli stereotipi narrativi e cinematografici tra i più maschilisti e beceri che si siano mai visti.
Sullo sfondo continuano a sfilare le vicende minime dei frequentatori della fumetteria, per tutti è una sorta di rifugio. Inevitabilmente però le loro attività attirano in quel luogo situazioni spiacevoli che finiscono per distruggerlo. La gang rivale del killer finisce per trovare il “nascondiglio” e lo devasta. Tutti gli avventori si mettono a disposizione e di buona lena ricostruiscono la fumetteria rendendola ancora più bella di prima.
Il giorno della folkloristica riapertura con tanto di rito sciamanico, divertente e fasullo. la polizia, a caccia del rivoluzionario e del gangster, si fa viva così come la gang avversaria e finisce di nuovo tutto a carte quarantotto. Questa volta però la polizia non molla e vuole acchiappare il bandito; dopo un’eroica fuga sui tetti, come di prammatica lui si sacrifica per il bene degli altri.
Dopo uno stacco, si vede Madame che, qualche anno dopo, cresce felice la bambina nata dalla relazione con il proprio stupratore ormai passato a miglior vita.
Il film è decisamente imperfetto sotto tutti i punti di vista, non si salva proprio niente e anche se si ispira al meglio della Nouvelle Vague giapponese e di quella di Hong Kong, non riesce mai a decollare davvero, soprattutto per la fiacca stereotipizzazione caricaturale dei personaggi. Il regista non ha saputo decidere se fare una commedia romantica o un noir contemporaneo sporco e aggressivo. Vale come documento d’epoca per sottolineare un passaggio generazionale e  politico.
The Train to Death di Rizal Mantovani Indonesia (2024 115′)
Il film è veramente inquietante non tanto perchè sia un horror, ma perchè è talmente brutto e mal fatto da far paura. Se la messa in scena avesse un minimo di ironia potrebbe sembrare lontanamente ispirato alla poetica di Sam Raimi ne “La casa” e invece nella sua programmatica seriosità è solamente auto-parodistico e malamente copiato dal famoso e comunque piuttosto discutibile “Train to Busan” di Yeon Sang-ho (2016)
Gli speculatori di una remota area dell’Indonesia puntano tutto sullo sviluppo turistico d’elite costruendo una nuova linea ferroviaria che unisce la città di Sangorka con un lussuoso resort. Poco importa se per realizzarla si è dovuta abbattere una foresta sacra con tanto di terribili demoni che, scatenati dal sacrilegio, fanno prima a pezzi alcuni degli operai impegnati nella costruzione della via ferrata e poi s’accaniscono sul convoglio che inaugura la stagione turistica.
Nel tragitto ferroviario, ad ogni galleria, la foresta si “mangia” un convoglio. La tematica del lungometraggio è vagamente ambientalista con le forze della natura che si vendicano degli oltraggi e degli abusi edilizi. La mostruosa entità femminile,  demone primario della foresta, è ben realizzata in quanto ad effetti speciali, in pieno contrasto con tutti gli altri effetti di computer graphic davvero molto grossolani
Dopo tante morti, un vero e proprio “treno di cadaveri”, di cui non serve dire, rimane in vita solo una passeggera eroina di tante disavventure che però è affetta da un tumore in fase terminale. Lo spettatore spera ardentemente che la vicenda si concluda con questa vena di speranza, ma resiste alla chemio-terapia e si salva.
Non spiacevoli le immagini finali con i cadaveri dei passeggeri “seminati” lungo il percorso ferroviario e trasformati in alberi che stanno gemmando: “Mettete dei fiori sui vostri binari”.Master Class Zhang Yimou

Senza dubbio l’incontro con il grandissimo regista cinese è stato uno dei momenti più attesi e culminanti del festival che, come sempre, ha investito moltissimo anche per quanto riguarda il ritorno d’immagine mediatica e social per la presenza di una tale celebrità. Nel cartellone figurava anche una sua breve retrospettiva, centrata in special modo  sulla pellicola che gli ha dato la notorietà in Occidente: Lanterne rosse (1991)
Le cosiddette Master class dei festival raramente si rivelano davvero interessanti per i contenuti e quella nello stracolmo Teatro Nuovo Giovanni da Udine non è stata per nulla un’eccezione.
Paradossalmente, la cosa più interessante che il regista ha detto, ripetuto e che ne rivela le vere opinioni e mentalità, è stata la critica alla pausa caffè per i musicisti occidentali sindacalizzati con i quali stava collaborando; niente meno che un allestimento della Turandot di Puccini nel 1994 con l’orchestra del Maggio musicale fiorentino diretta da Zubin Metha.
Il regista con fastidioso atteggiamento antisindacale, trova ancora scandaloso che le “maestranze” debbano rivendicare il diritto di mettere in pausa un processo creativo collettivo diretto da un genio come lui. In un altro caso, ha raccontato di aver trovato sbalorditivo che un addetto alla sicurezza, durante una scena di massa di The Great Wall (2016) abbia voluto sincerarsi che il campo di battaglia fosse abbastanza agevole per attori e cavalli. Forse Yimou crede di essere ancora ai tempi del “Napoléon  vu par Abel Gance”, nel quale, durante le riprese della battaglia di Tolone, ci furono anche alcuni morti tra le comparse per l’eccessivo realismo della messa in scena, come vuole la leggenda.
A sembrargli incredibile è stato soprattutto tanto accanimento nella protezione degli animali sul set, “Come se durante una battaglia si potesse avere tanti riguardi” forse non si è ancora reso conto nella sua ostentata megalomania, che non è un generale di Bonaparte e che la sua dovrebbe essere solo finzione.
Ha testualmente affermato che “In Cina non ci si preoccupa tanto dei “dettagli sulla sicurezza” – Noi ci sacrifichiamo fino in fondo per il lavoro, se sanguini per una ferita vai avanti lo stesso, non come qui in Europa…E’ ridicolo parlare, in questo senso, di una vicinanza tra Occidente e Oriente; il primo pensa solo alla sicurezza individuale, il secondo ad edificare la bellezza –  su queste basi il regista ha anche affermato che il cinema è un ponte che fa dialogare le genti.
In Cina l’arte viene prima di tutto e ogni sacrificio diventa necessario, non si pensa ai contrattempi, ha continiuato, non temiamo la lentezza, ma la fermata. In Italia, per quanto riguarda la tragedia della sicurezza sul lavoro, con migliaia di infortuni e qualche centinaio di morti all’anno, non ci manca nient’altro che si cominci a morire per fare un film.
Con tutto il rispetto del caso, si potrebbe rispondere al “geniale” regista cinese parafrasando un surreale dialogo dell’immortale “L’intervista” di Fellini, tra due pittori che stanno dipingendo, sospesi nel vuoto, un immenso fondale cinematografico. Uno dice all’altro: – A Zhang Yimou…No, stavo a pensà ‘na cosa…- L’altro risponde: – Cosa? – Perchè non te la vai a pijà ‘nder c…?-
Anche perchè il regista ha poi proseguito con perle di saggezza di questo tipo: “Esistono solo le opportunità e la capacità di coglierle, è questo il destino. Ciò che devi fare è resistere, coltivare la passione, continuamente con determinazione e verrai premiato”. Come diceva il celebre maestro Kesuke Miyagi che però, bisogna pure ammetterlo, cinese non era : “Dai la cera, togli la cera”.,
Francamente non si capisce il significato di una masterclass del genere durante la quale l’acclamato maestro riesce ad infilare solamente una banalità dietro l’altra, mentre il pubblico del teatrone applaude isterico soprattutto quando non capisce niente, e si perdoni la sicumera.
Il suo film che considera migliore è “Sorgo rosso” (1987), il primo, per il resto riconosce di non aver fatto sempre del proprio meglio, fare tutto sempre per bene è difficilissimo è solo questione di fortuna divide la propria vita in terzi “buono, sufficiente, non buono” Quello che possiamo aggiungere è sicuramente che è molto generoso con se stesso anche se ha la lucidità di dire che dopo il primo film non ha realizzato altri capolavori da cineteca; chi siamo noi per contraddirlo?
Arrivederci al Far East Film Festival 2025.

@ Flaviano Bosco per Instart 2024