Grande successo per la giornata dedicata ai pionieri della musica punk alla rassegna pordenonese. Quello che sembrava un azzardo si è rivelata una scelta davvero vincente, coraggiosa e nuova nel panorama musicale regionale che pur essendo ricchissimo sembra voler escludere programmaticamente il punk e la musica più estrema dai propri programmi.

Non se ne capisce proprio il motivo visto che appena fuori Regione, in tutto il nord Italia e oltreconfine, i concerti di rock un po’ più robusto e adulto sono un fenomeno, anche commerciale, che negli ultimi tempi sta riprendendo vigore con migliaia di presenze e artisti di livello internazionale. Ben vengano dunque le iniziative come quella del Pordenone Blues festival che hanno l’intelligenza di aprirsi a sempre nuove sfide.

Il Punk per definizione è una musica senza futuro, 45 anni dalla sua prima esplosione sono stati solo un istante di un presente piuttosto dilatato. Quella musica inventata da giovinastri che non sapevano nemmeno suonare, giusto un paio di accordi con rabbia, può essere accostata facilmente per origine all’altra musica “ignorante” per definizione che è il Blues.

Non è per nulla vero che siano due stili contrapposti, anzi è vero il contrario. Pochi accordi fissi, strumenti improvvisati, malconci o auto-costruiti, emarginazione e un grande dolore in fondo al cuore, è questo il segreto. Entrambi i generi per la loro apparente semplicità armonica ed esecutiva richiedono meno sofisticazione e più carisma di altri.

Timbro, espressività e dinamica prendono di gran lunga il sopravvento sulle armonie compositive e sulle tecniche esecutive.

Ruts D.C. Paul Fox (chitarra) John Jennings (basso) Dave Ruffy (batteria)

Hanno aperto la serata musicale quelli che in origine si chiamavano “The Ruts” che appartengono alla prima generazione del movimento inglese. Mutarono il nome dopo la morte per overdose del loro primo carismatico leader, il cantante Malcom Owen, influente come punk rocker che ebbe la sfortuna di morire poche settimane dopo il suicidio di Ian Curtis che ne oscurò totalmente la memoria.

Il trio ha ormai un’età veneranda, ma, nonostante gli anni passati anche in modo turbolento, non hanno perso energia anche se quello che suonano non appare più così abrasivo come un tempo, ha ancora un buon “tiro” e loro continuano ad aver un’attitudine del tutto punk.

Lo dimostrano fin da subito con il chitarrista Fox e il bassista Jennings che a volte si scambiano gli strumenti durante un pezzo, proprio come si faceva negli anni senza futuro della loro giovinezza, senza che si possa avvertire alcuna differenza.

Entrambi, infatti, suonano come se stessero impugnando due vanghe e va bene così, quello che vogliono far arrivare al pubblico è un’energia selvaggia e irrazionale in un mondo senza domani, dove il peccato perde ogni senso e quello che conta sono soltanto i fiori nella spazzatura, proprio come recita il testo di “God Save the Queen” dei Sex Pistols, che è meno stupido di quello che si pensa.

Tra i grandi pregi della band c’è sempre stato l’antifascismo militante e un radicale impegno contro il razzismo. Hanno sempre fatto parte della frangia più dura del movimento, sempre contro ogni “Fascist regime”, questa loro intransigenza l’hanno forse pagata con una certa marginalità e con l’ostracismo da parte dei media più commerciali che si sa sono sempre prezzolati.

E’ di certo proprio per questo che la loro forza anarchica e incontenibile non è venuta mai meno, la lotta non è per nulla finita, la lotta continua. Infatti, l’evoluzione naturale del primo punk è stato la contiguità con lo ska e il reggae nati per la rivendicazione dei diritti degli afro-caraibici e poi la nascita del movimento Rock Against Fascism del quale i The Ruts hanno fatto parte integrante.

Tra i loro cavalli di battaglia riproposti con la giusta foga ed energia a Pordenone gli anthem generazionali che allora cantavano a squarciagola, Jah War e Babylon’s Burning. Babilonia è naturalmente la società dei consumi contemporanea che in questi decenni non è cambiata per nulla in quanto ad emarginazione e discriminazione dei più deboli a livello sociale, se si guarda a cosa sta succedendo nei ghetti francesi in questi mesi c’è da dargli assolutamente ragione. “Oh, Babylon’s burning, you burn in the street, you burn in the ghetto, with anxiety, Babylon is Burning!”

Il set è finito all’improvviso così com’era cominciato, senza troppe smancerie, giusto il tempo di qualche meritato applauso e immediatamente sono saliti sul palco i Buzzcocks che non si sono certo fatti pregare per attaccare.

Buzzcocks. Steve Diggle (chitarra) Chris Remington (basso) Danny Farrant (batteria)

L’impatto è quello giusto, sguaiato e sbruffone con quell’ironia maleducata che ha sempre distinto il gruppo dagli altri “padri” del punk sempre arrabbiati e rozzi. I Buzzcocks, al contrario, sono sempre stati divertenti e cialtroni e non si smentiscono certo adesso dopo tanti anni, per loro il punk non è mai stata una cosa seria. Anche se sono passati alla storia come gli epigoni del pop-punk, un tempo piuttosto disprezzato dall’ala più intransigente del movimento, hanno sempre giocato la carta dell’ironia e della satira sagace nei loro testi e nel modo di fare musica, portando al punk anche la gioia del disimpegno se così si può dire. Oggi certe questioni appaiono solo come sfumature ma all’epoca sulla coerenza e sull’adesione a certi principi non si scherzava molto.

Il chitarrista Steve Diggle ha preso sulle spalle l’eredità di Howard Devoto e Pete Shelley, membri fondatori della band, per traghettarla verso nuove avventure. A Pordenone si è potuto ascoltare uno dei singoli del nuovo album dei Buzzcocks, “Manchester Rain” che dimostra che la band ha ancora qualcosa da dire nell’ambito di quello che i critici hanno definito il “Manchester sound”, la versione inglese dello sconclusionato, viscerale High School rock dei Ramones.

La città del nord ovest della Gran Bretagna è ben conosciuta tra l’altro per il suo clima estremamente piovoso e se c’è una cosa che non è mancata al Pordenone Blues Festival 2023, come già dicevamo, è proprio la pioggia. Mentre il gruppo cantava il pubblico nuotava felice in un acquazzone così leggero che non riusciva di certo a spegnere i bollori dei tanti punk rockers.

Il loro set è stato fulminante, i brani si sono susseguiti uno dopo l’altro senza un attimo di tregua, la loro giostra gira velocissima…one, two, three, four e si riparte sempre e comunque per un altro giro a rotta di collo senza aver nemmeno un secondo di troppo per pensare. Burloni e scanzonati come al solito, hanno dimostrano di avere ancora tanta energia da vendere. Tra i brani in scaletta sono risuonati potenti e divertenti il classico “Orgasm Addict”, una loro storica hit che li fece censurare da tutte le radio del Regno per il contenuto osceno sui vizietti onanistici degli adolescenti. Sempre efficaci il malinconico (solo nel testo) “What do I get?”, il rabbioso “Fast Cars” o lo strafottente “I don’t mind” con i loro assoli a “due corde” che sembrano sempre degli insulti all’arte chitarristica, ma che miracolosamente continuano a funzionare.

The Stranglers. Baz Warne (voce, chitarra), Jean-Jacques Brunel (basso) Toby Hounsham (tastiere)

Sul palco troneggia la scritta “The Stranglers” e tra i fan intervenuti corre un brivido al solo pensiero per quanta storia è racchiusa in quel nome.

Lo show viene introdotto da una marcetta arcade da circo tipo Freak Show che permette ai musicisti di guadagnare il palco ed imbracciare gli strumenti.

Partono ruvidissimi con un giro di basso che più bastardo non si può appena addolcito dagli inconfondibili accordi chitarristici di Baz Warne e dalle tastiere di Toby Hounsham.

“The Stranglers” hanno una lunga storia da raccontare in musica, la formazione attuale vede solamente il bassista Brunel come membro originale dopo molte defezioni, rimaneggiamenti, morti. La loro prima apparizione nel 1976 fu contemporanea a quella dell’esplosione del fenomeno punk cui spesso furono associati, ma che di certo non esaurì la loro vena creativa. La prima grande differenza con i loro coetanei che “violentavano” le loro chitarre e percussioni con furia selvaggia e incontrollabile era che i quattro di Guildford (Surrey) sapevano suonare e avevano ottime capacità tecniche. L’insolita formazione a quattro e l’uso delle tastiere davano al loro sound qualcosa di unico e misterioso per questo li avevano subito catalogati come appartenenti al “Punk colto” e a volte “destrorso” per il ricorso alle simbologie del Terzo Reicht che caratterizzarono con intenti spesso dissacratori una buona parte del movimento.

Immediato fu il loro interessamento al genere musicale detto Krautrock, l’elettronica tedesca ancora molto evidente nel loro stile che portano avanti a tanti anni di distanza. Fanno parte del loro fascino controverso che perdura nel tempo anche una certa misoginia insita nei testi, il riferimento alle mitologie nordiche e un certo atteggiamento sprezzante che traspariva anche nell’esibizione di Pordenone. Certo niente a che vedere con i tempi in cui insultavano direttamente il proprio pubblico come agli esordi, ma comunque nemmeno il massimo della cordialità.

La band vista al festival suona un buon alternative rock con venature più ruvide e punk, ma alterna anche momenti psych-pop, progressivi e gotici in una bella varietà di stili che riassume le varie fasi della loro carriera che spesso ha guardato anche ad interessi puramente commerciali e di classifica.

Di grande impatto, naturalmente, le vecchie hit come la celeberrima “Skin Deep”, “No more Heroes” e tutte quelle tratte dal notevole album d’esordio “Rattus Norvecicus” e quelle dall’esoterico “The Raven” che continuano ad invecchiare proprio bene come il vino migliore.

In ogni caso, lo show è compatto e piacevole, i fan di stretta osservanza lo hanno di certo adorato, gli altri si sono goduti della buona musica solida e ben suonata da parte di un gruppo che sembra avere parecchie cartucce ancora da sparare.

La città di Pordenone è stato uno dei centri italiani dell’irradiazione del punk non solo come genere musicale, ma anche come scelta di vita. La compilation Pordenone/The Great Complotto (1980) è considerata uno dei momenti aurorali della scena punk italiana che non ha per nulla smesso di generare i suoi frutti anche a distanza di così tanti anni.

Da quei gruppi seminali (Tampax, HitlerSS, Cancer, Sexy Angels…) si è generato un terreno musicalmente fertile che in città ha fatto germinare talenti assoluti come Teho Teardo, Davide Toffolo, Gian Maria Accusani e molti altri. Se in Italia esiste un circuito autenticamente Indie è merito delle produzioni discografiche de La Tempesta le cui turbolenze creative sono allo stesso modo scaturite dalla città del Noncello.

Negli stessi giorni del festival a provarlo ulteriormente erano anche due belle mostre alla galleria Harry Bertoia, la prima curata dal musicologo Enrico Merlin “1000 dischi per un secolo” una storia della cultura musicale del XX sec attraverso il supporto fonografico. L’altra pregevole mostra era “Icons of Art” giunta alla VIII edizione nella quale si potevano ammirare i volti di personaggi famosi della cultura pop dell’ultimo secolo riprodotti con la tecnica del mosaico dagli allievi della Scuola Mosaicisti del Friuli.

Il Punk però non è solo lo sferragliare di chitarre scordate e lo “sputazzare” tra una parolaccia e l’altra, è un’autentica scelta di vita. Alla base del movimento tanti anni fa c’era anche il motto “Do It Yourself” (Fattelo da solo) derivato dalla sfiducia verso le istituzioni e le politiche calate dall’alto; allo stesso modo risalgono a quel movimento le prime rivendicazioni ambientaliste riguardo al verde pubblico, al riciclo, alla sensibilizzazione contro l’inquinamento e via di seguito (Vedi Crass).

I pordenonesi questo lo capirono immediatamente e non l’hanno ancora dimenticato. Per questo è punk inventarsi un festival Blues con migliaia di presenze e fantastici artisti in un parco bellissimo, ma è altrettanto punk difendere le decine e decine di alberi che il solito intervento di “riqualificazione” cittadina vorrebbero abbattere.

A pochi passi dal parco San Valentino dove si teneva il festival, infatti, centinaia di cittadini protestavano per l’arbitrario riassetto dell’ex Fiera che prevede l’abbattimento di 53 bellissimi tigli quasi centenari per far posto allo spropositato ampliamento di un’area sportiva nell’ambito del Progetto Young finanziato con 21 milioni di euro, gran parte dal PNNR. L’amministrazione comunale, dimostrando grande considerazione per le opinioni dei propri cittadini, considera chiusa la questione e vuole procedere ai tagli senza por tempo in mezzo.

Sono punk i pordenonesi che vogliono incatenarsi agli alberi o che fanno la sentinella per evitare il solito scempio di verde pubblico e l’ennesima inutile colata di cemento e sono punk tutti coloro che rifiutano la protervia di una politica sempre più autoritaria che nel nostro paese, dal più piccolo comune alla capitale sta assumendo dimensioni drammatiche con risvolti impensabili facendo regredire il nostro paese di decenni nel campo delle conquiste sociali e dei diritti civili.

Tra i partecipanti al punk day del festival c’erano i Buzzcocks e i The Ruts che aderirono al movimento Rock Against Racism (RAR) che, a partire dal 1976, si opponeva al dilagare nel Regno Unito del Fronte Nazionale apertamente xenofobo, razzista e ultraconservatore. Attraverso la musica si voleva esortare le persone alla solidarietà e al rispetto reciproco soprattutto dopo che un’icona della musica e del blues come Eric Clapton si era dichiarato a favore di un candidato conservatore, affermando durante un concerto che la nazione cominciava ad essere sovraffollata e a somigliare ad una colonia nera, per questo bisognava cacciare i neri e gli asiatici. A queste farneticazioni si unirono quelle di David Bowie che auspicava un leader fascista per il proprio paese. A parziale giustificazione dei due immensi artisti bisogna dire che allora erano fortemente dipendenti dalla cocaina.

Droga o meno l’indignazione dell’ambiente della musica, ma soprattutto dei cittadini, fu enorme e per alcuni anni furono organizzate forti manifestazioni di denuncia e concerti di protesta. La lezione però evidentemente non bastò agli inglesi, visto che nel 1979 divenne primo ministro Margaret Tatcher.

Visto che, se si sa leggere tra le righe, le similitudini con la realtà attuale del nostro paese sono immediatamente evidenti, prima che la catastrofe sia definitiva forse è meglio riascoltare la musica punk con maggiore attenzione.

La scommessa di Pordenone Blues è pienamente vinta ancora una volta anche perché ha voluto uscire dall’elitarismo che schiaccia e soffoca le rassegne che non capiscono che la musica cambia ed evolve con il pubblico. La musica non ha confini e proprio la storia del blues ci insegna quanto contaminato e bizzarro è il suo percorso, tracciando la strada verso un futuro che non prevede ritorno.

Come ha dimostrato felicemente il Pordenone Blues Festival 2023, “Punk is not dead” speriamo di poterlo dire con sincerità anche di noi stessi.

© Flaviano Bosco – instArt 2023