La terza “puntata” dell’ultima edizione di Biblioteca in Jazz è stata dedicata ad un estroso genio della musica folk americana. Aveva 28 anni Richie Havens (1941-2013) quando alle ore 17 di venerdì 15/08/1969 imbracciò la sua chitarra per aprire davanti a 500.000 persone la tre giorni di Peace, Love & Music di Woodstock. La sua performance semimprovvisata diventò immediatamente leggendaria tanto quanto quella di Jimi Hendrix che lo chiuse incendiando il cielo la mattina del 18/08 alle 8,00.

Heavens doveva suonare solo pochi brani, ma fu costretto a furor di popolo a suonare per più di due ore. L’ultimo brano in scaletta fu un grido di libertà dal giogo dell’oppressione che vale ancora oggi per ognuno di noi e per tutti i popoli della terra. L’indimenticabile Freedom è passata alla storia per l’intensa interpretazione del chitarrista, per la sua disperata energia e per il suo stile stumming (utilizzo del pollice per gli accordi). Più raramente, invece, ci si sofferma sul fatto che si trattava di una personalissima versione di uno dei più antichi “negro spiritual” che siano giunti fino a noi.

“Motherless Child” la cui prima esecuzione pubblica documentabile risale al 1870 è in realtà un traditional Hymns della slavery afro-americana molto più antico e per alcuni filologi può essere fatto risalire al primo secolo della tratta (XVII sec.). Conterrebbe perciò le prime eco di quel dolore sordo e inimmaginabile che gli schiavi portavano nel cuore per lo sradicamento dalla loro terra madre africana e per la diaspora nel continente americano. Il verso che nella canzone viene ripetuto come refrain, recita dolorosamente: “Sometimes I feel Like a Motherless child”, quell’orfano, disperato e solo è lo schiavo che è stato strappato dalla propria terra, perdendo la propria famiglia e gli affetti più cari, condannato ad una vita di fatica e di stenti indicibili nelle piantagioni.

Solo la musica poteva veicolare ed esprimere questo dolore sublimandolo in una bellezza eterna che ancora oggi riusciamo a cogliere.

Favot-Costantini Duo: Lorena Favot (voce) Mauro Costantini (piano)

All’inizio del concerto, Lorena Favot ha “giocato” improvvisando con i loop e i riverberi della sua pedaliera, omaggiando proprio “Motherless child” e, con le tastiere di Costantini a creare la magia, si è celebrato non solo la traadizione del blues afroamericano, ma anche la straordinaria sensibilità di due artisti che hanno fatto della musica la loro stessa vita.

Il concerto ha preso l’abbrivio poi con una suadente versione di Moondance di Van Morrison ed è stata subito una “Marvelous night for a moondance”.

Il pianista ha uno stile deciso e percussivo che in alcuni momenti ricorda lo “Stride” dei grandi maestri degli anni ’30, ma sa essere anche cristallino e notturno; la voce della Favot si sposa benissimo con le sue atmosfere, soprattutto nei vocalizzi e nello skat attraverso i quali duetta meravigliosamente con il pianista. A volte, ma purtroppo non in questo caso, la cantante si accompagna con le emozioni liquide in forma di suono del suo fantastico Ocean drum.

Costantini sa essere funkeggiante e pieno di luce nel suo improvvisare come ha dimostrato pregevolmente in un brano di Stevie Wonder; gli riescono benissimo anche le atmosfere blusy e charleston dell’età del jazz, tutta mossettine e gorgheggi, mentre le note cadono sul pubblico come le grosse gocce di un temporale estivo.

Rivolti al pubblico hanno dichiarato che suonano quello che gli piace, musica senza confini, senza mettere limiti a quello che gli va; è una dichiarazione d’intenti niente male. Infatti, il concerto è stato un susseguirsi piacevolmente disarticolato di standard dello Swing con brani assolutamente pop e perfino commerciali.

Alcuni brani sono stati davvero divertenti e sbarazzini, e mettevano allegria fin dai primi accordi che sprizzavano buonumore anche grazie al canto quasi in falsetto della Favot, sempre seducente, simpatica e maliarda.

Non poteva mancare l’omaggio alla cantautrice friulana Elisa con “Anche fragile”. Si tratta di un brano piacevole ma non per tutti i gusti, non adatto soprattutto ai diabetici perchè molto, molto zuccheroso: “Io ti porto un gelato che non puoi mangiare”. In ogni caso, la versione del duo è stata più elegante e digeribile dell’originale.

La passeggiata nel pop è continuata con una canzoncina di qualche anno fa di Jess Glynne, “I’ll be there” musicalmente molto viva, ma anche questa non adatta a tutti i palati. Decisamente molto più gradevole e profonda grazie all’interpretazione della Favot, la stupenda “All of Me” di Billie Holiday.

La scaletta ha previsto ancora il solito, ottimo Sting in salsa Jazz, la coinvolgente classica “Song for my Father” di Horace Silver; l’ancora più monumentale “Saint Louis Blues” di W.C. Handy con l’aggiunta estemporanea di “L’angelo e la pazienza” di Ivano Fossati e “dopo centomila ore non c’è stato un minuto di più”.

Per questo il duo ha concluso addirittura con il brano di Cristina Aguilera “Beautiful” perfettamente nelle corde di entrambi e “No matter what they say”, il duo Favot/Costantini ha talento e stoffa da vendere soprattutto quando non insegue il bel canto tipo “Amici di Maria de Filippi”, ma si concentra di più sugli standard del Blues e del Jazz, rispettivamente padre e figlio della cultura e della musica afroamericana; la vera madre aspetta e piange sulle sponde del Golfo di Guinea.

Le riflessioni dell’ultimo rendez-vous allo Studio 35 hanno voluto sottolineare prima di tutto la tossica retorica populista che satura la nostra rete d’informazione, spesso dipinge le giovani generazioni come apatiche prive di idee e di iniziative, anestetizzate dai social e schiave di sostanze illecite e psicofarmaci, in completo distacco dalla “cosiddetta” realtà. Si utilizzano gli stessi stereotipi che sono sempre serviti per marginalizzare coloro che al potere non risultano obbedienti e conformi, come dicevamo più sopra dei musicisti jazz spesso strumento di rivendicazioni dei diritti civili degli oppressi.

A partire dal 28 maggio scorso un coordinamento degli studenti dell’ateneo udinese ha deciso una simbolica, pacifica occupazione del giardino di Palazzo Antonini, sede delle facoltà umanistiche, per chiedere la pace in Palestina e l’immediato cessate il fuoco, come sta avvenendo in tutta Italia e in ogni parte del mondo.

Un gruppo di ragazzi ha piantato le tende e ha cominciato pacificamente a discutere, confrontarsi e condividere la protesta. Niente di più democratico, civile ed educativo. Un’azione che rappresenta la base del diritto di cittadinanza, sancito e difeso anche dalla Costituzione della Repubblica artt.17 e 21.

Proprio nel giorno dell’ultimo concerto, i giornalacci locali muovevano critiche assai salaci e velenose al coordinamento e ai ragazzi scagliando le solite strumentali accuse di antisemitismo e di velato fiancheggiamento del terrorismo islamista che oggi non si negano a nessuno e vanno via come il pane.

Se qualcuno si chiedesse cosa c’entra tutto questo con il mondo della musica, si ricordi che solo qualche giorno prima (21 giugno) Roger Water, il leggendario, geniale co-fondatore dei Pink Floyd, aveva partecipato all’evento in diretta streaming: “Rock for Palestine” insieme a Yusuf Cat Stevens e al rapper Lowkey, per chiedere a gran voce: “Stop killing our brothers and sisters in Palestine. Stop the Genocide!”.

Una scritta del genere a caratteri cubitali campeggiava anche su un enorme pallone frenato azzurro a forma di maiale. Nei giorni precedenti il suino aerostatico aveva galleggiato nei cieli di Londra, sopra alcuni luoghi simbolo come Westminister per il potere politico, e la centrale elettrica di Battersea per quello energetico, come nell’iconica immagine di copertina del monumentale album Animals dei Pink Floyd

Nino Rota Project; Nevio Zaninotto (Sassofono) Matteo Sacilotto (chitarra) Simone Serafini (contrabbasso) Jacopo Zanette (batteria)

Nino Rota e Federico Fellini sono un binomio straordinario per la cultura italiana e mondiale. Pochi come loro hanno saputo rappresentare e influenzare l’immaginario collettivo contemporaneo. Le loro immagini-note e i loro suoni della fantasia ci hanno hanno ghermito il cuore e la psiche e ci aiutano ad immaginare i nostri futuri e a gestire la nostalgia per ciò che abbiamo perduto.

A questo proposito, il nostro presente ha di certo perduto la capacità di interrogarsi e riflettere su se stesso. Ci siamo progressivamente chiusi nella coazione a ripetere del consumismo che ci fa credere che gli oggetti e la merce siano sufficienti a riempire i nostri vuoti esistenziali.

Fellini e Rota ci forniscono, invece, il materiale adatto per ricominciare a tessere i nostri sogni perchè è di quelli che siamo fatti

Lo ha capito benissimo il chitarrista Matteo Sacilotto materializzando il proprio sogno del “Nino Rota Project” accanto agli altri suoi eccezionali musicisti.

L’interpretazione della musica di Rota da parte del quartetto è quanto mai libera dai canoni della fedeltà ai suoi dettati e giustamente non ne rispetta l’essenza, facendo proprie le intuizioni e suggestioni del Maestro. La musica di quest’ultimo è stata intesa e utilizzata come sottotesto e fonte di ispirazione attraverso il quale costruire riflessioni e divagazioni anche del tutto estemporanee.

Ha preso così nuova vita l’omaggio in musica al più esoterico dei film del regista riminese.

Giulietta degli spiriti è un viaggio onirico e psicomagico nell’inconscio dello stesso Fellini che fa il verso e sublima tutte le sue frequentazioni con psicoanalisti, sciamani e altri indagatori dell’inconscio, ciarlatani patentati compresi. Il tema di Giulietta di Rota rispecchia ironicamente tale vagabondaggio tra i misteri della mente e il quartetto di Sacilotto lo ha compreso benissimo, cedendo piacevolmente alle ondeggianti e saltellanti suggestioni della melodia senza mai forzare troppo la mano nell’arrangiamento.

La magia si ripete con “Faccette scintillanti”. Il brano si apre con un incalzante assolo di Serafini che sa giocare con dissonanze e accordature regalando al brano, insieme agli altri musicisti, venature black del tutto assenti nel brano originale, senza mai perdere la tenerezza. Un brano davvero intenso e immaginifico, lontano dalle solite pedisseque banalità celebrative. Il suono di Zaninotto è caldo, morbido, familiare e accogliente.

Lo stesso discorso vale per il celeberrimo tema de: “I vitelloni” che, invece, contiene tutte le speranze e i sogni del giovane regista che Rota ha saputo interpretare e che la ritmica di Zanette e Serafini hanno contribuito a trasformare nel desiderio di una fantasticheria, nell’illusione di un pomeriggio di sole all’ombra di un bar ad ingannare il tempo con un’altra aranciata.

Una vera sorpresa è stata la riproposizione del tema de “Il bidone” forse una delle pellicole meno note al grande pubblico del regista riminese. Una storia tragica di un piccolo truffatore da quattro soldi che la colonna sonora non maschera per nulla e anzi rende ancora più sconsolata. Il Nino Rota Project però non è caduto nel tranello della pedissequa riproposizione di quelle atmosfere.

Il prezioso sassofonista Nevio Zaninotto sembra la reincarnazione di Augusto Rocca, il protagonista del film interpretato dal grande William Broderick Crawford.

Moltissimi si sono cimentati nella reinterpretazione di quelle meravigliose suggestioni, tanto che i temi di quelle colonne sonore sono diventati dei veri e propri standard del jazz italiano e della musica internazionale in genere.

Quello che i quattro del progetto di Sacilotto hanno aggiunto sono le loro personali improvvisazioni sul jazz contemporaneo che sono del tutto assenti come riferimento nelle composizioni di Rota che spesso costruiva ritratti caricaturali dei personaggi che non venivano dallo schermo, ma direttamente dalla fantasia di ciò che gli raccontava Fellini.

Il compositore raramente vedeva prima il girato o i film dei quali doveva fare la colonna sonora, se li faceva raccontare e dal dialogo con il regista scaturiva il processo creativo.

La chitarra di Sacilotto costruisce e dipana le storie che gli altri del gruppo impreziosiscono con i loro assolo, moltiplicando le prospettive; è un equilibrio che si crea perchè tutti sanno mettere a disposizione degli altri sinergicamente il loro talento.

Una piacevole parentesi è stata anche dedicata alle composizioni di Rota non felliniane e, in particolare quelle relative alla colonna sonora de “Il giornalino di Gianburrasca” (Addio al Giornalino) di Lina Wertmüller, uno sceneggiato televisivo celeberrimo che ha condizionato l’infanzia, “rovinandola”, di intere generazioni. La delicatezza sognante di Jacopo Zanette e la chitarra di Sacilotto tessono una rete di riferimenti che, in realtà, eccedono piacevolmente le intenzioni dello stesso compositore.

Si è tornati nel seminato con “Le notti di Cabiria” quando il consulente di Fellini era ancora Pasolini che lo scarrozzava alla scoperta delle borgate. E’ un film sulle resurrezioni, dal ripescaggio della protagonista che voleva affogarsi nel Tevere, alla censuratissima sequenza dell’uomo del sacco che ci fa scendere e risalire dagli abissi della disperazione.

I quattro del Nino Rota Project rendono il tema del film vivo e scattante, ci sembra proprio di vederla la stramba peripatetica Cabiria/Masina che salta e ancheggia nella sua sgangherata danza. Il brano ruota attorno alla veloce ritmica in levare che rivela tutta la delicata plasticità di Serafini e degli altri musicisti.

Dal magnifico lungometraggio dedicato alla città eterna è stata tratta la rilettura di “Aria di Roma”, con la descrizione della città in musica che è del tutto immaginaria perchè scaturita direttamente dai sogni di Fellini e dalle dita di Rota. Dalla composizione emergono nettamente anche le ossessioni e i pensieri neri che i due immensi artisti sapevano mascherare con la loro dolcezza. In questo senso il quartetto di Sacilotto ha saputo vedere tra le righe dello spartito e Zaninotto ha riflettuto con il suo strumento su quelle note scure e piene di tenebra sotto la superfice levigata.

Ha chiuso le danze non solo del concerto ma anche della quarta edizione di Biblioteca in Jazz, il tema di “Amarcord”, felpato e onirico proprio così come deve essere e naturalmente ci riporta ai topoi dell’immaginario felliniano: il Grand Hotel, il Rex, la tabaccaia, la Gradisca che sono diventati parte integrante della nostra vita di tutti i giorni e della nostra psicologia. Grazie al Nino Rota Project di Sacilotto & C. si è potuta apprezzare anche l’anima latina e caraibica del brano.

In conclusione, rubiamo una battuta proprio da questo film che esprime tutta lo stupore davanti alla bellezza del creato che dovrebbe sempre esserci da guida:

“Guarda quante ce ne sono. oh. Milioni di milioni di milioni di stelle. Ostia ragazzi, io mi domando come cavolo fa a reggersi tutta sta baracca. Perchè per noi è abbastanza facile, devo fare un palazzo: tot mattoni, tot quintali di calce, ma lassù, viva la Madonna, dove le metto le fondamenta, eh? Non sono mica coriandoli.”

E’ doveroso un ringraziamento finale a Umberto Marin, presidente di Time for Africa, al direttore artistico Simone Serafini e ai ragazzi dello Studio 35. Arrivederci a tutti alla prossima edizione sempre “Sotto le stelle del Jazz”.

Flaviano Bosco / instArt 2024 ©