La stagione lirica del Verdi di Trieste, prezioso scrigno del bel canto, si è aperta con la dolcissima musica di Puccini in una applaudita ma discussa messa in scena dell’opera che consacrò il compositore toscano alla gloria dei teatri del mondo e lo designò come il degno erede di Giuseppe Verdi, il vecchio leone che però allora non aveva ancora smesso di ruggire.
Manon Lescaut fu fin dalla prima rappresentazione un assoluto trionfo, non tanto per la novità dell’intreccio che era ben noto, a partire dal romanzo di Francois-Antoine Prévost “Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut” all’opera omonima di Massenet, ma soprattutto per le innovazioni che Puccini aveva cominciato ad introdurre in partitura trasformando il polveroso melodramma italiano in un tipo di rappresentazione nuova, come si dice, al passo con i tempi.
I temi musicali che wagnerianamente ritornano come leit motive nel corso dell’opera, la spregiudicatezza delle sue eroine e l’anticonformismo in generale che aleggia nelle sue opere avevano concorso non poco a creare quell’atmosfera leggendaria di “maudit” che distingueva il giovane Puccini dal folto gruppo di colleghi.
Manon Lescaut anticipa alcuni temi tipici del “canone” pucciniano, per quanto riguarda la definizione dell’eroina e dell’eroe, l’ambientazione per quadri della vicenda, il vigore orchestrale e quell’aria da boheme che diventerà definizione a partire dall’opera successiva per l’appunto la Boheme.
Non è difficile, infatti, trovare delle similitudini tra la storia di Manon/Des Grieux e quella di Mimì/Rodolfo, sono due coppie in qualche modo speculari e le vicende hanno perfino un esito molto simile.
Quattro atti/quadri per due storie d’amore che bruciano i loro protagonisti fino a consumarli. Naturalmente al centro della tragedia ci sono sempre donne con fortissime passioni e inevitabili destini e uomini che sembrano sempre subire passivamente le avversità della vita. Nessuno dei personaggi dell’intreccio è uno sprovveduto, ognuno è ben consapevole delle conseguenze delle proprie scelte spesso scellerate.
Solo per inciso si ricordi che nell’opera di Prévost i protagonisti hanno rispettivamente quindici e diciassette anni e che Montesquieu li aveva liquidati lapidariamente con una frase che non si lascia interpretare altrimenti: “Il cavaliere Des Grieux è un mascalzone, Manon una puttana”. Amen.
Nel corso dei centotrent’anni che ci separano dalla prima di Manon Lescaut (Teatro Regio di Torino, 01/02/1893) moltissimi allestimenti si sono susseguiti in tutto il mondo e, naturalmente, anche al Verdi di Trieste nel quale l’opera debuttò nel 1894.
Dalle ambientazioni settecentesche perfettamente in linea con il romanzo di Prévost a quelle ipermoderne che hanno stravolto completamente perfino le più ragionevoli e minime indicazioni del libretto, tra le più recenti quella “scandalosa” con la provocante visione del regista Graham Vick andata in scena a Verona nel marzo 2018.
L’attuale messa in scena triestina a cura di Gianna Fratta, Maestra Concertatrice e direttrice, la regia di Guy Montavon, le scene di Hank Irwin Kittel, è andata nella legittima direzione della modernizzazione, in realtà, senza forzare troppo la mano alla ricerca di facili scandalismi o trovate morbose. Si è voluto appositamente accentuare anche a livello scenografico la radicale differenza tra l’ambientazione dei quattro atti, perdendo per qualche eccesso ogni elemento di continuità se si esclude un volto femminile artisticamente riprodotto in quattro diversi momenti e composizioni. Pesano sulle scene anche alcune sculture astratte che a volte sono sembrate del tutto fuori contesto.
La scenografia è stata di certo sontuosa soprattutto per quanto riguarda il secondo atto con il lussuoso appartamento di Geronte trasformato per l’occasione in stravagante ricchissimo artista che ha fatto di Manon la propria opera d’arte vivente e la propria musa. Lei che adora vivere nel lusso se ne fa beffe fino a dileggiarlo davanti al proprio amante.
Tutta la scena, che nel libretto originale riguarda la lezione di ballo con l’esibito minuetto di Manon, è stata sostituita con quella ai limiti del farsesco di un calco per una statua che prevede Manon insacchettata nel domopak e poi cosparsa di gesso a presa rapida o similari.
A livello registico si è calcato davvero troppo la mano sulla raffigurazione dei comprimari tutti rigorosamente caricaturali, a partire dal fratello della protagonista Lescaut che appare come un guappo italoamericano a Geronte che a tratti sembrava assomigliare ad uno della coppia comica dei Fichi d’India. Per non parlare di alcuni particolari che facevano scadere nel ridicolo intere scene come l’aragosta di plastica che ritorna più volte come pietanza prelibata e una bottiglietta di coca-cola.
Completamente stravolta ma di una qualche efficacia l’ambientazione del terzo atto al porto di Le Havre con una sorta di asta delle prostitute che verranno deportate in America.
Nel quarto atto alla landa desolata fisica si sostituisce intelligentemente il deserto interiore di una coppia senza più futuro che abita in una casa dove l’acqua non manca di certo, in un angolo si vede una confezione da sei di bottiglie in plastica, ma manca il dialogo, la speranza e l’amore e lui non riesce più a darle un buon motivo per vivere e lei si consuma e muore.
Primo atto
Nella prima scena domina una composizione liberty sul fondale come di una lampada Tiffany, con tessere di vetri colorati unite da sottili piombature. E’ un colossale volto di donna che domina su tutto. E’ il simbolo della gioventù e della bramosia della protagonista.
La porta verso Parigi di Amiens, nella messa in scena di Montavon, diventa un viale per il passeggio e lo struscio. Tra un aperitivo e uno stuzzichino, come in viale XX settembre a Trieste, la locanda del libretto è diventata un chiosco per i gelati gratis che attira come insetti molesti i giovinastri che ronzano intorno alle “Fresche ridenti e belle artigianelle” trascinati dalla santa ebrezza nell’ora delle fantasie: “Giovinezza è il nostro nome, la speranza è la nostra iddia, ci trascina per le chiome”.
Tra i bellimbusti studentelli perditempo anche il cavaliere Renato Des Grieux, interpretato dal tenore Roberto Aronica, che sdegna le faccende amorose “L’amor questa tragedia ovvero commedia io non conosco”.
Fino all’inedito sfarfallare delle monachelle in abito lungo e velo tra le quali si distingue la fatale Manon Lescaut, la soprano Lana Kos.
Dio mio quant’è bella!…il regista ha voluto che fosse l’unica senza il velo anche per renderla subito riconoscibile dal pubblico.
Lei resta sola al tavolo e lui subito l’approccia: “Cortese damigella, come vi chiamate? Manon Lescaut risponde ed è fatta ma “un chiostro m’attende”
Lui canta e lei si fa subito vincere dalla passione, evidentemente la vocazione non doveva essere così profonda.
E’ decisamente un colpo di fulmine, poche frasi, una musica sublime e gaia ed entrambi sono perduti.
I compagni di merende del giovane cavaliere finiscono per prenderlo in giro perchè è bastato un attimo a trasformare un burbero in un innamorato come nelle commedie di Goldoni.
La scena funziona a livello registico, ma è un po’ avvilita da un tono più adatto forse all’avanspettacolo che ad un teatro dell’opera. Di certo anche in origine il quadro era gaio e dalle tinte vivaci, ma decisamente più composto. Per esempio, il malriuscito tentativo di rapimento della giovane da parte del vecchio satiro Geronte (Matteo Peirone) con sostituzione della monaca è davvero degno del vecchio Macario con tutto il rispetto per il comico.
Gli amanti finiscono per scappare felici di corsa verso il futuro, sostenuti dalle note trionfali dell’orchestra, lasciando a bocca asciutta chi li voleva ghermire, ma questi ultimi sanno benissimo che per mantenere Manon a Parigi ci vuole ben altro che la misera borsa di uno studentello.
Il principale difetto della rappresentazione è stato immediatamente evidente fin dai primi accenni: l’orchestra, fin troppo brillante e argentina, copriva le voci dei cantanti o contribuiva a renderle indistinguibili; alcuni eccessi orchestrali erano presenti anche nelle arie più spensierate, celebri e dolci in un’indigeribile impasto sonoro.
II atto
Come ricordato, negli intrecci pucciniani l’azione viene raccontata per quadri, a volte anche con grandi salti temporali tra l’uno e l’altro che lasciano all’immaginazione degli spettatori il raccordo narrativo.
In questo caso, un’ellisse supera gli amori parigini della coppia di giovanetti, mentre ritroviamo Manon, già diventata cortigiana, che vive lussuosamente nella casa del Tesoriere generale Geronte de Ravoir.
Sontuosa la scenografia con lei che si trucca in un salone che sembra un museo d’arte moderna. Il suo preteso Pigmalione è ritratto come un vanitoso grande artista che si attornia di belle cose tra le quali comprende anche le persone.
Quando il fratello, anche lui mantenuto da Geronte, le ricorda d’averla salvata da una vita di miseria, Manon annoiata e pensosa, un po’ ipocritamente rimpiange i tempi in cui viveva solo d’amore con il suo giovane cavaliere che però non ha esitato un istante a tradire.
“L’ho abbandonato senza un saluto…un bacio! Ah…in quelle trine morbide…nell’alcova dorata v’è un silenzio…un freddo che m’agghiaccia! Ed io che m’ero avezza a una carezza voluttuosa di labbra ardenti e d’infuocate braccia…or ho…tutt’altra cosa! O mia dimora umile, tu mi ritorni innanzi gaia, isolata, bianca come un sogno gentile e di pace!”
Des Grieux l’ama ancora e sta tentando la fortuna al gioco per poterla riconquistare ricco e spietato. In Manon si riaccende l’antica fiamma, la brama e il capriccio (Vien, più resister non so) tanto da riuscire a convincere il fratello Lescaut a ricondurlo a lei.
Prima del nuovo fatale incontro nel libretto vi è un gustoso siparietto nel quale Geronte fa cantare da Musici “ciarlatani” i propri madrigali ed esibisce in una lezione di ballo la bella Manon che crede di possedere come uno dei tanti oggetti preziosi della sua casa.
Nella messa in scena del Verdi anche in questo caso, è mancata la sobrietà e l’eleganza, trasformando la scena già ai limiti di una funzionale commedia in una farsa nella quale il personaggio di Geronte abbigliato in total black con occhialacci sembra Tony Renis oppure un menagramo oppure tutti e due viene ridicolizzato oltre ogni decenza.
Manon vuole essere amata con passione e non messa su di un piedistallo come una statua greca. Nel testo alcuni versi si riferiscono a Mercurio e Ciprigna. Il dio dei commerci allude a Geronte, avido e senza cuore e Venere di Cipro, naturalmente a Manon, appassionata dea dell’amore.
Il Cavaliere Des Grieux sfruttando un’assenza del padrone di casa si ripresenta davanti alla propria antica amata e la passione riesplode: “O tentatrice è questo l’antico che ancora m’acceca…M’arde il tuo bacio, dolce tesor e si baciano pieni di passione. Labbra adorate e care. Manon mi fai morire”
Applauso a scena aperta alla fine dell’aria.
Geronte che doveva aver subodorato qualcosa ritorna e li coglie in flagrante. Viene pesantemente insultato da Manon che gli ricorda la sua sconcia vecchiezza.
“Oltre al danno a Beffa” oppure come si dice a Napoli con la solita sagacia “Cornuto e mmazziato”. Geronte non la prende bene e fa intervenire le guardie che arrestano l’adultera mentre l’amante se la cava per il “rotto della cuffia” tanto per continuare con le espressioni idiomatiche.
In linea generale anche in questo atto i movimenti di scena sono sembrati del tutto inadeguati, inefficaci e confusi a dispetto dello splendido allestimento con il quale lo scenografo ha avuto buon gioco e gusto nell’osare.
Intermezzo sinfonico
Puccini l’aveva voluto meraviglioso e dolente, di grande intensità, portato dagli archi e impreziosito dal tocco dell’arpa.
E’ una drammatica danza degli elementi; è il vento in un campo di grano, cui il rombo della grancassa dei timpani aggiunge una nota drammatica di temporale. Come aveva scritto Pascoli solo un paio d’anni prima: “Un bubbolio lontano…rosseggia l’orizzonte, come affocato, a mare; nero di pece, a monte, stracci di nubi chiare, tra un nero casolare, un’ala di gabbiano”
L’interpretazione della Fratta è stata molto discussa da alcuni melomani accaniti tra il pubblico che hanno trovato la sua direzione troppo fiacca, poco poetica e stereotipata che ha, testuali parole, “massacrato” la partitura.
A tratti davvero sembrava che il suo modello di riferimento fosse non tanto il genio di Torre del Lago ma il compositore americano John Williams che ha utilizzato “pro domo sua” l’intermezzo sinfonico per la colonna sonora di Star Wars.
La Direttrice però è sembrata non solo soddisfatta dell’esecuzione, ma addirittura raggiante tanto da applaudire calorosamente i propri musicisti. Molte cose sono evidentemente cambiate dai tempi rigorosi e austeri di Toscanini o di Sergiu Celibidache.
Qualcuno tra il pubblico allora ha fatto partire una registrazione con il proprio telefonino, dello stesso brano suonata, secondo lui, in modo degno; qualcun altro dal pubblico esclama: “Sparategli”. Succede questo e altro quando la passione per il bel canto è ancora davvero sentita, sanguigna e viscerale. Viva Trieste! Evviva l’Italia!
Terzo atto
La fedifraga Manon è incarcerata a Le Havre in attesa di essere deportata in America insieme ad altre prostitute. Il cavaliere è venuto a liberarela; (Al diavolo l’America, Manon non partirà) ha comprato una guardia per farla evadere, ma anche questo suo progetto fallirà come tutto quello che riguarda la coppia che sembra quasi gravata da una maledizione. Il loro scellerato amore li conduce inesorabilmente, qualunque cosa facciano, verso la rovina e l’autodistruzione.
Vediamo Geronte che gozzoviglia con un’aragosta di plastica e coca-cola, mentre contratta sul prezzo delle prigioniere che vengono assegnate ai compratori in una pubblica asta. La scena totalmente riadattata e rivista rispetto alle indicazioni del libretto funziona. Le condannate entrano in fila e si inginocchiano in una triste fila spalle al pubblico, in bella evidenza sulle loro nuche un barcode che le identifica come merce.
Des Grieux tenta fino all’ultimo di salvare la propria bella (Pazzo son guardate come piango e imploro) ma non può far niente e così decide di seguirla nell’onta fino in fondo e si fa umile mozzo imbarcato sulla stessa galera che trasporta oltre Atlantico le misere tapine.
Si chiude così anche il terzo atto che ha visto protagonista soprattutto il coro che viene a lungo applaudito prima che cali il sipario.
Quarto Atto
Durante il lungo e macchinoso cambio scena con il teatro a luci spente e sipario abbassato dietro il quale s’avvertivano strani rumori e martellate; la direttrice e l’orchestra se ne stavano in attesa e il pubblico inquieto un po’ meno. Approfittando della pausa forzata, una signora nelle prime file della platea ha pensato bene di ristorarsi con una generosa sorsata da una fiaschetta che teneva in borsa; dall’odore pungente e aspro che si sentiva non si sarebbe potuto garantire sulla gradazione del liquido contenuto che però, di certo, non era acqua. Anche questa è magia del teatro.
Alla buon ora, si è rialzato il sipario e la scena si è aperta su un miserabile interno di un appartamento in cattivo stato con lui nel tinello disadorno e lei chiusa in bagno.
Il deserto della Luisiana del libretto nel quale i due amanti, sempre in fuga, vagano senza speranza è diventato, nell’allestimento triestino, uno squallido appartamento di periferia nel quale nessuno dei due riesce più a vivere.
Lei avrebbe sete di vita, ma ormai è tardi, la passione è svanita portandosi via tutti i sogni e la voglia di futuro. Non resta che morire. La tragedia inevitabilmente si compie, lei si spegne: “Le mie colpe…sereno… travolgerà l’oblio, ma l’amor mio…non muor.”
Quello che si è capito è che l’arte di Puccini è talmente enorme che può ben resistere ad ogni forma di messa in scena anche la più discutibile. In questa, in particolare, le polemiche anche piuttosto virulente non sono certo mancate, ma l’amore di Manon e Des Grieux è stato ancora più forte di tutto. Come dicevano gli antichi “Omnia vincit amor et nos cedamus amori”.
© Flaviano Bosco – instArt 2023