Con una carriera di cinquant’anni alle spalle Finardi continua a rilanciare e senza cedere alla nostalgia porta in tour una suite che ha composto ri-arrangiando per pianoforte e sax alcuni dei suoi brani storici. Non si è volutamente scritto i suoi “maggiori” successi perché evidentemente non è stato quello il criterio utilizzato dal musicista.

L’intento non è stato quello di blandire il desiderio dei fan e degli estimatori, ma la precisa volontà di guardare in una nuova prospettiva alcune composizioni che, messe l’una vicina all’altra, compongono una sorta di flusso continuo, forse anche perché generate da una medesima fonte d’ispirazione tra le tante che sgorgano dalla vena creativa di Finardi.

Alla voce Eufonia il vocabolario Treccani riporta: “eufonìa s. f. [dal lat. Tardo euphonĭa, gr. εὐϕωνία, comp. di εὖ «bene1» e ϕωνή «voce»]. – Buon suono, suono piacevole. In partic., impressione gradevole data dall’incontro di certi suoni… si contrappone a cacofonia”.

Per Euphonia si intende anche un un genere di uccelli passeriformi della famiglia Fringillidae. Al genere vengono ascritti gli uccelli noti col nome di eufonie o organisti. Non serve spiegare che tale denominazione dipende dalle particolarissime doti “vocali” e armoniche dei graziosi volatili. Di tutto questo non si è per nulla dimenticato Finardi inserendo significativamente un’immagine di questi meravigliosi uccellini canori sulla copertina del disco.

Il teatro di Monfalcone, dove si è svolto il concerto, è storicamente votato alla musica più raffinata in una tradizione che scava le proprie radici agli inizi del secolo breve e che, anche questa volta, è stata pienamente rispettata.

Come ogni volta che viene dalle nostre parti il cantante sul palcoscenico, si ricorda della sua tata di Palmanova che lo ha cresciuto aiutando la madre, cantante lirica ipovedente, sussurrandogli parole in friulano di grande tenerezza tipo: “Puar frut” (povero piccolino).

Finardi quando riflette sulla sua passione per la musica dice di essere “nato dentro ad uno strumento musicale” proprio perché sua madre faceva la cantante, ancora prima di nascere è stato concepito e cresciuto con la musica tra il diaframma e il cuore; se non bastasse questo, si ricordi che suo padre era un ingegnere del suono professionista quando quel mestiere era pionieristico perfino negli Stati Uniti.

Come molta musica dell’ultimo periodo, l’idea di “Euphonia suite” è scaturita dalle giornate uggiose del lockdown durante la pandemia. Finardi come molti artisti, condannato agli arresti domiciliari sanitari, ha sentito il bisogno di una valvola di sfogo e la musica gli ha tracciato la via. Ha pensato così di unire quegli elementi sonori che da sempre lo affascinano: la forza del canto rituale, le suite cameristiche, gli orizzonti della musica progressiva, legando un brano all’altro senza soluzione di continuità.

Da vero maestro di cerimonie, prima del concerto, ha anche pregato il pubblico di attenersi ad alcune piccole sue indicazioni e a contenere gli applausi allo stretto necessario. Può sembrare un vezzo snob o un atteggiamento da parvenu, due cose che Finardi non conosce neanche lontanamente, ma al contrario è stata una cortese esortazione a prestare attenzione e a non reagire automaticamente ad ogni ritornello finale così tanto per abitudine e coazione a ripetere.

Il più delle volte, infatti, l’applauso, le eccessive ovazioni che si sentono durante i concerti sono tutt’altro che generate dall’entusiasmo o dall’autentico piacere dell’ascolto; sempre più spesso sono, al contrario, vuoti rituali di una celebrazione privata di ogni reale significato. L’applauso registrato e insistito dei programmi televisivi ha generato uno spiacevole malcostume tra il pubblico che, condizionato come i “cani di Pavlov”, si sente in dovere di applaudire in ogni momento di silenzio, quasi a sedare un proprio imbarazzo, riempiendo quegli attimi di vuoto che, invece, dovrebbero servire a riflettere e a gustare ancora di più il riverbero che le note lasciano nell’aria.

Quello che si va perdendo sempre di più è un’attitudine all’ascolto meditato e attento che viene sostituito con quella al vorace, veloce consumo non tanto di esecuzioni musicali ma di prestazioni tecnico ginniche durante le quali il musicista deve soprattutto stupire e non emozionare e tanto meno far pensare.

Finardi, per fortuna appartiene ad un altro mondo, e saluta ancora il signor pardone con uno sberleffo infischiandosene di questi ignobili inganni dello show business. Davvero encomiabile e significativo anche il fatto che abbia voluto vicino a se anche in quest’avventura due straordinari musicisti di caratura internazionale come Mirko Signorile (pianoforte) e Raffaele Casarano (Sax) con i quali collabora da anni in studio e live.

Il cantante bergamasco-newyorkese ha sempre saputo attorniarsi di musicisti fuori dal comune , basti pensare ai primi album (Diesel, 1975, Sugo 1977) per capire che fin da subito è stata una sua precipua caratteristica quella di farsi baricentro e punto focale di ensemble tra i più sofisticati; già quando non era che all’inizio di una luminosa carriera e con se aveva i migliori musicisti della scena europea ovvero la migliore formazione degli Area, international popular group di Stratos, Fariselli, Capiozzo, Tavolazzi, Calloni, Tofani, senza contare Camerini ecc.

Quegli anni sono decisamente passati, ma non si è per nulla esaurita la voglia di Finardi di mettersi alla prova anche adesso che non è più un giovanotto. Certo la sua vocalità è cambiata, ma non è cambiata l’attitudine ribelle solo che si manifesta in modo diverso e non meno efficace.

Tra le cose che ha detto al pubblico di Monfalcone anche qualcosa che sembrava una sorta di confessione molto sentita: “In questo momento non c’è posto migliore dove vorrei essere, qui tra il pianoforte e il saxofono con voi davanti” forse è stata una di quelle frasi ad effetto che ripete ad ogni esibizione, ma è stato comunque molto emozionante sentirla e poi per un musicista vero la magia si ripete davvero ogni sera anche se i luoghi sono diversi.

Le prime note sul pianoforte sono state veramente i respiri iniziali di una meditazione in musica che ha scavato a fondo nei cuori del pubblico, che è sembrato avvicinarsi come in punta di piedi, sospeso e leggero, ad una dimensione di desiderio e di pienezza in grado di astrarre dalle miserie del quotidiano.

Il sax soprano di Casarano si sposava benissimo con la voce speziata e arrochita del cantante di un Finardi che è sembrato più in forma che mai, come uno che non ha mai smesso di sognare e di desiderare.

Canta: “Io non sopporto la tortura, gli squadroni della morte” é “Soweto” e suona più attuale che mai mentre i brani del suo repertorio s’innestano uno nell’altro cuciti insieme da preziose improvvisazioni dei due musicisti, che sembrano raccontare storie antiche e nuove allo stesso tempo.

“La vedevo tutti i giorni andando a scuola, non sono mai riuscito a dirle una parola” e ognuno ritorna con la memoria alla compagna di banco che tutti abbiamo avuto o che avremmo voluto avere, amandola da lontano come bambini goffi e timidi e se ci pensiamo bene siamo tutti rimasti ancora in quel cortile a guardarla ridere divertita alle battute di qualcun altro che avremmo voluto essere noi. Dio voglia che non la incontriamo mai adesso che abbiamo la pancia e la barba bianca e forse ce l’ha anche lei. Forse adesso “Katia capirà” e non le piacerà proprio per niente quello che vedrà e in ogni caso è sempre troppo tardi.

Casagrande ha saputo conquistare spesso la scena con assoli di sax soprano incalzato dal piano di Signorile, in un tono che è rimasto sempre nostalgico e vellutato, per nulla spiacevole, e in alcuni momenti perfettamente jazz.

“Giancarlo guida… su per un’Italia che scotta” da un album come Diesel il cui motore dura da più di dieci lustri, il carburante forse non è più così rispettoso dell’ambiente ma il significato di quei versi è ancora estremamente in carreggiata. Tutti noi amiamo “questa gente che si da da fare, che vive la vita senza starsela a menare, che non teme la fatica ma che non si fa sfruttare…”

Tra i brani eseguiti anche alcuni sentiti omaggi a suoi degni compagni d’avventura nella musica italiana. Il primo è stato quello a Franco Battiato con un’interpretazione di “Oceano di Silenzio” veramente toccante. Finardi da sempre si distingue per le sue particolarissime modulazione vocali dal timbro assolutamente unico e inconfondibile; le sue non sono mai state “cover” propriamente dette, nemmeno quando cantava il blues inglese da ragazzo, ma proprie versioni di brani altrui; è così che si distingue il grande artista istrione dal semplice saltimbanco con tutto il rispetto per entrambi. Non di minor pregio l’emozionante “Una notte in Italia” di Ivano Fossati che Finardi ha saputo rendere, se è possibile, ancora più levigata e riflessiva.

Il pubblico ha seguito estasiato tutta l’esibizione partecipando con battimani e cori a mezza voce con anche momenti di silenzio sospeso di rara intensità prima di far esplodere, di tanto in tanto, fragorosi e gioiosi applausi.

Protagonista della serata, indubbiamente, anche il prezioso pianoforte Fazioli del teatro di Monfalcone che, per gli appassionati, è di per se un’attrazione per il suo suono di assoluta brillantezza e il suo innegabile fascino elegante di laccato nero. Signorile e Finardi insieme ne hanno saggiato anche le caratteristiche sonore meno tradizionali percuotendo ritmicamente il coperchio della cassa armonica, la cordiera e vari supporti, ottenendo ugualmente suoni meravigliosi sui quali non c’era dubbio alcuno visto l’impareggiabile qualità costruttiva dello strumento. Finardi da vecchio corsaro del palcoscenico ha utilizzato in modo analogo anche il microfono battendolo leggermente con i polpastrelli, impreziosendo ulteriormente un tessuto sonoro già raffinatissimo.

Naturalmente, non sono mancati alcuni storici successi che molti fan aspettavano come “La radio, Extraterrestre, Le ragazze di Osaka, Dolce Italia, ma chi si aspettava anche l’iconica Musica ribelle è rimasto deluso. Finardi la canta ormai molto raramente, non ha mai voluto farsi imprigionare nello stereotipo del giovane arrabbiato nemmeno quando lo era, figuriamoci adesso. Noi però non dobbiamo rispondere che al nostrolubrico desiderio di ammiratori della sua musica perciò a conclusione di queste righe appassionate il bis che lo dedichiamo da soli perché:

È la musica, la musica ribelle

che ti vibra nelle ossa

che ti entra nella pelle

che ti dice di uscire

che ti urla di cambiare

di mollare le menate

e di metterti a lottare.

© Flaviano Bosco – instArt 2023