Si è chiusa con un concerto stellare un’altra meravigliosa edizione del festival della destra Tagliamento. Grande soddisfazione del patron Flavio Massarutto, profeta della musica d’improvvisazione nel nostro paese, che dal palco ha snocciolato fiero i numeri di pubblico in crescita esponenziale e a due cifre dopo gli anni bui del Covid. Tutto il lavoro sulla qualità delle proposte sta ripagando la rassegna con un pubblico nuovo desideroso di mettersi ancora alla prova con l’esperienza della musica dal vivo che lo streaming prima e l’epidemia poi avevano momentaneamente affossato. Il Direttore artistico Massarutto, ben consapevole del proprio valore di insostituibile operatore culturale, oltre che per la grande affabilità e competenza, si distingue per essere un grande talent scout con un eccezionale fiuto da vero e proprio cane da caccia del jazz. E’ un vero bracco che sa intercettare i talenti prima di chiunque altro cooptandoli per il proprio festival che è un piccolo scrigno dove nel corso degli anni hanno sfavillato gemme di prima grandezza della musica internazionale. Sul palco, per presentare l’ultima serata, oltre al giornalista, anche l’entusiasta Bernava, sindaco della cittadina in scarpe da tennis e abbigliamento molto casual, forte dei sold out e dei grandi numeri di pubblico che garantiscono un ritorno d’immagine a livello nazionale. Fa bene al cuore sentire un amministratore dire che la propria città vive di cultura e che ogni manifestazione garantisce un valore aggiunto a tutte le attività anche commerciali, svelando le future iniziative e garantendo al festival sostegno anche maggiore dell’usuale. Qualcuno potrà anche diffidare dei politici e delle loro false promesse, ma il sindaco di San Vito è sembrato assolutamente sincero e anche questo è un miracolo della musica.

Il cartellone di quest’anno ha esordito con il sulfureo concerto dell’inarrestabile Francesco Bearzatti, stella luminosa del panorama della musica europea, con “The Peace Concert”, un inedito concerto in doppio quartetto, commissionatogli appositamente dal festival. Non sono mancate le grandi emozioni, nemmeno nel secondo appuntamento, letteralmente fino alle lacrime, per l’esibizione della cantante Graziella Vendramin, affiancata dalla voce narrante di Valerio Marchi, in ricordo dell’inarrivabile Nina Simone. Un salto nella contemporaneità lo si è fatto al terzo incontro con Sara Zaccarelli e i suoi Soul Train, tutti giovani artisti di cui sentiremo parlare a lungo in futuro.

“Dulcis in fundo” Amaro Freitas, non più semplice astro-nascente del jazz a livello mondiale, ma stella di un nuovo firmamento della musica senza più barriere nè etichette possibili. Le collaborazioni del suo ultimo progetto musicale, che ha visto la luce della sala d’incisione solo qualche mese fa, lo testimoniano senza ombra di dubbio. Perfino in Italia le sue quotazioni sono nettamente in ascesa dopo che il capocomico Stefano Bollani lo ha voluto come super ospite nel suo avanspettacolo televisivo.

Il suo è un jazz molto “mescolato” ha detto Massarutto nella sua breve presentazione e non poteva utilizzare termine migliore aggiungendo che tutte le contaminazioni che esprime l’arte del pianista pernambucano non possono fare a meno di rivelare un radicale anelito verso l’inclusione, la libertà, la pace e la condivisione, senza il quale non si può parlare propriamente di Jazz.

Fin dai primi accordi sullo Stainway & Sons preparato, Freitas ha saputo essere irruento, ipnotico e sciamanico, costruendo immediatamente un sentiero nell’arte del pianoforte. Si è fatto largo a forza di sciabolate in un intrico di citazioni e riferimenti che andavano dal pianismo tradizionale nord americano, tra Africa e avanguardia, alle suggestioni della musica contemporanea, da John Cage a Stockausen fino ai tropicalismi del Latin Jazz con sconfinamenti nell’elettronica tedesca alla Klaus Schulze, tutto in un equilibrio fragilissimo tra silenzio e rumore.

Il suo stile martellante e percussivo in alcuni momenti ricordava lo stile dello Stride che però finiva per solcare le asprezze dei suoni sordi e perfino sgraziati del Prepared piano che, tra nastro adesivo, semi brasiliani, viti e mollette per il bucato, aveva trasformato la tavola armonica in un’allegra ferramenta.

Freitas sa essere violento ed esplosivo come un’eruzione, quanto languido e delicato come una carezza.

Già al terzo brano l’impostazione cambiava completamente e i suoni dominanti diventavano quelli di un lamellofono Mbira, molto simile alla Kalimba, collegato al sampler che rendeva l’atmosfera ancora più straniante, soprattutto nel gioco dei loop che affastellavano le sequenze e le vibrazioni creando uno scenario acustico che diventava immediatamente carico di tensione, drammatico, ipnotico e, in qualche modo, solenne fino ad ingenerare negli spettatori una sorta di timore davanti a quello che sembrava un rito d’iniziazione tribale.

Come ha dichiarato, o stesso musicista, in un’intervista nel numero attualmente in edicola di Musica Jazz che gli ha dedicato la copertina (n°880, 03/2024), durante la sua partecipazione all’Amazonas Green Jazz Festival 2023 che si svolge a Manaus al centro della grande foresta amazzonica ha avuto la possibilità di entrare in contatto diretto e di assistere ad alcuni riti d’iniziazione degli indios della comunità Satere-Mawé, che vivono in perfetta simbiosi con le acque dei fiumi che solcano la giungla.

“Ci si siede tutti in cerchio. Il Pajé, il guaritore, parla dell’importanza dell’esistenza, della connessione con le proprie radici, si beve il guaranà dell’Amazzonia dalla stessa tazza e poi i giovani di dodici anni si sottopongono al rito della Tucandeira, che è una formica il cui addome termina in un pungiglione che provoca dolore, gonfiore, arrossamento, febbre e brividi. I ragazzini devono infilare la mano dentro questo guanto pieno di formiche e resistere il più possibile. La sfida con la tucandeira rappresenta un momento di forza e coraggio per il giovane che si prepara a entrare nell’età adulta. Attraverso questo rito…Per me è stata un’esperienza trasformatrice.”

Decisivo è stato anche l’incontro con alcune entità della mitologia e del folklore amazzonico come l’Uiara, una sirena che intona melodie sinuose e pericolose come le acque del fiume che abita e nelle quali invita ad immergersi.

Da questo immaginario vengono i suoni liquidi dell’ultimo lavoro del pianista presentato a San Vito Jazz. “Y’Y” che nella lingua dei Satere-Mawé significa proprio “Acqua del fiume”. Non poteva esserci luogo migliore di San Vito al Tagliamento per un concerto di questo tipo, in una cittadina che al fiume deve la propria origine e che riconosce la propria identità sociale e religiosa in un santuario (Madonna di Rosa) dove si venera un’immagine della Vergine scampata miracolosamente alla furia delle acque.

Per ricreare quelle atmosfere che sono naturali e oniriche al tempo stesso Freitas non ha esitato ad utilizzare fischietti, richiami per gli uccelli, crepitacoli, sonagli con semi tropicali, Chachas di unghie di capra e tutta una strumentazione tradizionale che, unita al piano preparato, all’elettronica e al lamellofono ha creato un’esplosione di suoni e di sensazioni davvero immersive che hanno colorano l’aria di piume. I suoi vocalizzi e ritmi hanno fatto sentire il pubblico coinvolto in un viaggio senza ritorno lungo le vie d’acqua verso i misteri ancestrali della musica.

Casualmente, il giorno prima dell’esibizione di Freitas a San Vito Jazz, in tutto il mondo si è celebrata la giornata internazionale dell’acqua istituita dall’Onu. Il tema scelto quest’anno è stato “Water for peace” perchè “l’acqua può creare la pace o far scaturire i conflitti, può essere un obiettivo strategico, un arma, un mezzo di ricatto, ma deve essere soprattutto uno strumento di pace” (www.unwater.org).

Sempre in occasione della Giornata dell’acqua, a Trieste ha avuto grande risalto la mostra fotografica “Amazônia” di Sebastião Salgado con composizione musicale di Jean-Michel Jarre e un’altra, dal titolo “Aqua Mater” sempre del grande artista brasiliano, si è aperta a Palazzo Ducale a Genova:

“Un vero e proprio viaggio…E’ un percorso in luoghi lontani da noi, un viaggio in bianco e nero, che ci porta dove si vive in condizioni estreme, dove la notte è gelida e il giorno torrido. Alla scoperta di cascate enormi, di pozze d’acqua nelle foreste impenetrabili. La vita intorno a laghi, nei fiumi e sul mare di chi nell’acqua trova il cibo o il lavoro. Ad accompagnare le immagini i suoni della pioggia, dello scorrere di un fiume, delle onde.” (www.rainews.it)

E’ esattamente questo che Freitas fa immaginare con la propria musica sorgiva.

La foresta guardava dentro ognuno degli spettatori dell’Auditorium Zotti in religioso silenzio grazie all’arte sciamanica di Freitas, preziosa, impenetrabile a momenti quanto scarnificata, minerale e disadorna in altri. A volte sembrano materializzarsi uccelli dai colori metallici che dalla volta vegetale della foresta si gettano nelle acque del fiume in cerca di pesciolini che sembrano foglie d’argento, altre volte si fa strada nei cuori una strana paura percussiva veicolata da una sostanza musicale decostruita e scabra che si frantuma e ricompone, prende vita e si dissolve sotto le dita del pianista.

Il suo strumento a tratti sembrava trasformarsi in una piroga che scivolava sulle acque di un fiume limaccioso sfidandone i misteri, le magie del grande verde più cupo e brillante delle alte cime degli alberi. Freitas invitava il pubblico a ritmare l’ascolto di tanta meraviglia con semplici vocalizzi che a tutti sono sembrati una forma di preghiera.

Anche solo per associazione di idee venivano in mente le immagini e i film che Werner Herzog ha dedicato all’Amazzonia: Aguirre, furore di Dio, il Diamante bianco, Il mio nemico più caro, Fitzcarraldo. Quest’ultimo romanza la storia di Brian Sweeny Fitzgerald detto Fitzcarraldo, magnate del cauciù, che, agli inizi del secolo XX°, aveva il sogno di costruire un teatro dell’opera nel pieno della foresta amazzonica e farci cantare Enrico Caruso. Nella sua folle impresa non esitò ad avventurarsi in quei remoti luoghi risalendo un fiume con una grossa nave che fece trainare dagli indios su una collina facendola scivolare dalla parte opposta per evitare una pericolosa ansa. Per irretire gli indios Fitzcarraldo utilizzava un grammofono con l’imperiosa voce di Caruso.

Scrive il regista tedesco in un suo disincantato libro di ricordi su quell’esperienza: “L’acqua scorre davanti a me in pigri mulinelli, inseguendo un destino lontano. Nella giungla alle mie spalle gli uccelli s’insultano a vicenda. Nulla si asciuga più come si deve, le scarpe, i vestiti. Il cuoio ammuffisce, gli orologi digitali si fermano…Le foglie della giungla luccicano e stillano gocce e a volte i pesci di grandi dimensioni infrangono l’indolente superficie del fiume con uno schiocco rumoroso, lasciandosi dietro cerchi che si allargano sull’acqua, così imponenti come se un sauro preistorico, sazio, stesse andando a fondo. Quando la pioggia cessa e ogni cosa sgocciola lentamente dagli alberi, per qualche istante esiste qualcosa di simile alla pace dell’anima.” (La conquista dell’inutile, Mondadori 2007, pag.149)

Forse non c’era tutto questo nell’esibizione di Freitas, ma le parole di Herzog ci aiutano a capirne il contesto e l’ispirazione meglio di tante chiacchiere.

Prima di concedersi ai generosi bis, il pianista si è goduto gli applausi del pubblico salutandolo a pugno chiuso, un gesto che forse serviva a indicare la sua appartenenza al “nuovo” Brasile di Lula impegnato a rianimare il paese dopo la catastrofe della presidenza Bolsonaro che fu preannunciata, in modo sinistro, dal grande incendio del Museo Nazionale del Brasile di Rio de Janeiro (02/09/2018) nel quale andarono distrutti venti milioni di manufatti artistici in gran parte relativi alle culture indigene del paese cancellando definitivamente secoli di studi e di ricerche.

Freitas ha voluto dedicare “Gloriosa”, il primo degli encore, alla madre e alla tenerezza delle nenie che gli cantava per addormentarlo. Dopo tanta furia iconoclasta le corde del pianoforte hanno vibrato per una melodia dolcissima e morbida sussurrata a fior di labbra, come il na-na-na fatto cantare al pubblico trasformando un semplice accordo in un’emozione collettiva pura e leggera come una brillante piuma di un uccello tropicale.

E’ seguito “Gabriel” un brano di nuova composizione dai ritmi ossessivi ma anche sospeso e sognante che in alcuni momenti ricordava la musica progressiva di Keith Tippett e di altri giganti della tastiera degli anni ’70.

Il pianista brasiliano si è infine congedato eseguendo una personale interpretazione del classico “Olha Maria” di Tom di una bellezza atmosferica e seducente: “Parti Maria che sei tutta nuda che la Luna ti chiama che sei così donna. Ardi Maria al fuoco della Luna Maria zigana, Maria Marea”.

Freitas è un ragazzone dalla pettinatura improbabile e “sparata” all’insù da un fucile a canne mozze, che veste abiti dai mille colori e che possiede una sensibilità e una geometria interiore tutta astratta e metafisica. La cosa che sbalordisce per chi lo segue praticamente dai suoi esordi discografici (il primo concerto in Friuli risale a Grado Jazz 08/07/2019) è l’enorme sua crescita personale come compositore e performer.

Anche se nella sua musica non c’è niente di assolutamente nuovo dal punto di vista tecnico, il suo approccio al pianoforte, apparentemente così ingenuo e gioioso, rappresenta davvero un’inedita germinazione di qualcosa di affascinante che sa di acque lustrali e di un luminoso futuro.

Flaviano Bosco / instArt 2024 ©