Agàpe al Centro di Accoglienza Balducci di Zugliano (UD) Nel passato mese di maggio si è aperta al Centro di Accoglienza e di Promozione Culturale Ernesto Balducci di Zugliano (UD) una nuova esperienza di condivisione di emozioni e riflessioni attraverso il cinema sui grandi temi relativi alla “Cura” e alla “Fragilità”, rinverdendo in questo modo la vecchia ma sempre efficace formula del cineforum che a qualcuno può apparire anacronistica e desueta. Al contrario, in un’epoca come la nostra nella quale i film si trangugiano come popcorn e bibitoni gassati e sono paragonabili a qualunque altro prodotto da scaffale, è molto utile ritornare ad interrogarci su cosa possiamo capire attraverso la rappresentazione cinematografica della nostra realtà. E allora “I figli degli Uomini” di Alfonso Cuaròn (2006) ci ha aiutato a riflettere sull’avere cura del creato; “Miracolo a Le Havre” di Aki Kaurismäki (2011) ci ha fatto pensare ai bambini e alla pace dialogando con il teologo Andrea Bellavite; “Il medico di campagna” di Thomas Lilti (2016) attraverso anche i pensieri della psichiatra Angela Bertoni e dell’educatrice Angela Calabretta, ci ha interrogato sulla cura della persona; infine Giampaolo Carbonetto grazie a “Gran Torino” di Clint Eastwood (2008) ci ha introdotti ai temi dell’anzianità e del fine vita. Uno splendido programma con un discreto successo di pubblico che i giornalacci locali non si sono fatti sfuggire di tacere, perchè certe informazioni è meglio non darle, ci sono cose ben più importanti da riferire tra cronaca nerissima e gossip; troppo riflettere può far male ai lettori-consumatori, potrebbe perfino svegliarli dal torpore nel quale il Potere invece vuole che sprofondino come docili animaletti da cortile. Alla faccia dei media asserviti e distratti, la caparbietà e la competenza di don Paolo Iannaccone, direttore del Centro Balducci e dei suoi collaboratori ha permesso che la “pionieristica” esperienza avesse un seguito immediatamente nel mese di giugno già subito senza por tempo in mezzo. Con giovedì scorso è così iniziata la rassegna “Giugno Migrante” nella quale quasi tutti i giovedì del mese si potranno vedere non solo degli ottimi recentissimi film a tema migrazione ma anche ascoltare dell’ottima musica suonata dal vivo, deliziarsi con un momento conviviale prima della proiezione, e poi godersi il dibattito con i preziosi ospiti (registi, attori e operatori del sociale ecc.) il tutto in un’atmosfera del tutto familiare e informale dove al primo posto viene sempre la condivisione e l’accoglienza nel sempre rinnovato stupore dell’incontro con l’altro. L’intento dichiarato è quello di “suonargliele” e “fargliela vedere” a coloro che si ostinano a non credere che sia possibile oltre che doveroso aiutare i nostri fratelli che attraversano le montagne e il mare in situazioni pericolosissime per giungere fino a noi in cerca di un futuro migliore. Il nuovo ciclo di incontri tra musica e cinema si è aperto nella bucolica corte interna della vecchia canonica di Zugliano. All’ombra di due enormi gelsi ultra-centenari si è tenuta l’applaudita esibizione del “Freddy Frenzy’s King of Ska trio”, in realtà rivelatosi fin da subito un quartetto piacevolissimo e ben assortito: Freddy Frenzy aka Alfredo Pittoni (voce e chitarra) Giorgia D’Artizio (voce) Andrea Zanet (basso) Rob Daz (tromba). Quelle di Freddy Frenzy, veterano della musica in levare del triveneto, sono note dolci e speziate, arricchite dalle morbide immaginazioni dei suoi musicisti e dall’amore in musica di Giorgia D’Artizio, cantante raffinata e sensibile che fa della poesia la propria prospettiva esistenziale. Freddy Frenzy è un artista assolutamente autentico che vibra sempre al ritmo del proprio cuore; i suoi suoni Roots Jamaican Style sono semplici, scarni, diretti e proprio per questo t’innamorano in un istante. E’ una musica che ti lascia il tempo per sognare e girovagare con i pensieri tra le fronde degli alberi e la luce che vi filtra. Nella tradizione giapponese il termine “Komorebi” esprime uno stato d’animo leggero e a volte sfuggente, del tutto immateriale come i raggi di sole che filtrano dalla volta nel sottobosco, le alte fronde di quegli alberi diventano le nostre radici nel cielo e, idealmente, dirigono i nostri sogni e aspirazioni verso un “gusto superiore”. Attimi di grande intensità sono stati regalati dalla tromba di Rob Daz, piena di spezie profumate e di colori vivaci e dal basso elettrico di Zanet che ha sostenuto da solo una ritmica morbida. Momento culminante dell’esibizione è stata la personale versione del “Walz degli scafisti” di Vasco Brondi, che in un verso recita “Gli scafisti si orientano con le stelle” come, con grande emozione di tutti, ha confermato una persona del pubblico che viene da molto, molto lontano. Le persone erranti, coloro che per ragione o per forza sono costrette a migrare, ci portano il profumo del tempo e del futuro, ma, come dice una delle canzoni in scaletta, “La coscienza il sistema non ce l’ha” e allora, se cadiamo nella trappola della xenofobia, prima o poi, ci sembrano fastidiosi e clandestini anche i rondoni che sfrecciano, lanciando le loro grida, dopo aver attraversato mezzo mondo, per venire a fare i loro nidi sotto i nostri tetti. “We don’t want this world” non lo vogliamo davvero questo mondo dove si crede che i problemi si possano risolvere con i “campi di concentramento” tipo quelli che l’attuale governo ha finanziato in Albania, che vengono spacciati come confortevoli e più umani. “Un altro mondo è possibile”, come si diceva tempo fa, e lo è davvero. Dopo la piacevolissima introduzione musicale, è stato il momento di bere un bicchiere di quello buono gustando le delizie preparate e imbandite dai volontari del Centro Balducci; è vero che “Non di solo pane vivrà l’uomo…”, ma anche il cibo condiviso è Agape come ci ricorda Tertulliano nel suo Apologetico (cap.39). I primi cristiani si riunivano per vere e proprie cene “collettive” nel nome dell’amore, possiamo ben farlo anche noi. Proseguendo nella anodina metafora ornitologica, durante tutto l’incontro al Centro Balducci, dalle alte cime dei grandi alberi del giardino si poteva sentire cantare un cuculo che con il suo ritmato verso chiamava la propria femmina. C’è una sorta di pregiudizio e qualche volta di stigma nei confronti di questo meraviglioso piccolo rapace migratore, certamente dovuto al suo particolare modo di deporre le uova. E’ ben noto che, in un certo senso, sfrutta quelli degli altri uccelli per deporvi il proprio che cresce come una sorta di parassita a spese degli altri ignari volatili. Recenti studi hanno dimostrato che la questione è ben più complessa e che il cuculo, in realtà, entra in vera e propria simbiosi con le altre specie che lo ospitano e crescono, creando un equilibrio del tutto sostenibile e fecondo, tanto da creare continuamente ibridazioni, vere e proprie nuove specie più adatte e resistenti al cambiamento climatico e alle trasformazioni dell’ambiente naturale. Non possiamo farci sfuggire la similitudine con la questione delle persone migranti. Per la parte più becera degli europei non sarebbero altro che parassiti, cupidi di ricchezze, che invadono il nostro sacro suolo per profanare le nostre case, rubarci il lavoro, con l’occulto scopo della “sostituzione etnica” teorizzata dalle farneticazioni di Gerd Hosik e Richard Kalergi. Le migrazioni, al contrario, pur con il loro carico di dolore e di problematiche, sono state da sempre la ricchezza dei popoli che hanno così potuto conoscersi, aiutarsi, mescolarsi ed amarsi. Il film Agàpe dei registi Velania A. Mesay e Tomi Mellina Bares, quest’ultimo presente alla proiezione al Balducci, ha regalato agli spettatori uno sguardo diverso sull’emergenza dei flussi migratori che colpevolmente non vengono agevolati e resi “umani”. Lo scenario è quello dell’isola di Lesbo, l’isola greca dell’Egeo orientale, su quella frontiera sottile e permeabile che dall’inizio dei tempi unisce oriente e occidente nella stessa area nella quale sorgeva la città diTroia, origine e sorgente della nostra civiltà e del nostro immaginario mitico. Proprio su quell’isola che diede i natali alla poetessa Saffo e che fu cantata dai versi di Anacreonte, a partire dal 2015 insiste uno dei tanti “campi di concentramento” nei quali vengono detenute le migliaia di migranti che percorrono le antiche vie che dall’Asia, attraverso il Peloponneso e poi lungo i Balcani portano all’Europa continentale. Nel 2020 Moira, il campo profughi più grande d’Europa in una delle zone più desolate dell’isola, prese fuoco costringendo migliaia di persone ad una condizione ancora più miserabile. La soluzione fu la costruzione di una struttura “concentrazionaria” ancora più grande nella quale isolare i sopravvissuti e tutti gli altri miserabili in arrivo, nell’attesa di respingerli. La vicenda tutt’altro che risolta, è stata mostrata sotto molte prospettive dai media, soprattutto ricorrendo alla “pornografia del dolore” che mescola il sensazionalismo della cronaca più nera al pietismo farisaico di chi si commuove per le immagini “sparate” sui social e con qualche lacrimuccia e un po’ di indignazione un tanto al chilo, si lava la coscienza. Mesay e Bares, al contrario, invece di concentrarsi sul racconto degli aspetti più voyeristici della questione che spesso ci fanno assistere al solito susseguirsi di dettagli macabri e situazioni eclatanti che saturano la nostra attenzione di consumatori compulsivi della “Società dello spettacolo”, spostano la loro prospettiva sui sentimenti delle persone costrette a vivere in quelle condizioni. Nessuno sembra chiedersi mai come amano, cosa sentono, quali sofferenze psicologiche abitano nei cuori di tutte quelle persone che spesso riusciamo a considerare solamente come una massa informe di disperati senz’anima. Il docu-film con una grazia e una delicatezza straordinaria ci fa ascoltare le voci di quei cuori mentre s’interrogano e riflettono su che cosa siano per loro l’amore, il sentimento, i legami familiari e di amicizia. Direttamente dalle loro voci impariamo che cosa singnifica veramente accogliere ed amare, il primo riferimento cinematografico dell’opera è di certo “Comizi d’amore” di Pier Paolo Pasolini ma il taglio narrativo non è quello dell’inchiesta giornalistica, ma piuttosto quello dell’elegia e dell’esercizio del silenzio interiore che ci permette di ascoltare con il cuore ben aperto. Diventa subito chiaro, anche attraverso questo splendido, doloroso film, cosa spaventa di più noi obesi occidentali, di questo popolo in fuga. Le persone migranti con la loro forza, la determinazione, con la loro speranza e la Pietas ci mettono davanti alle nostre responsabilità, prima di tutto derivanti dagli sconsiderati effetti del colonialismo e dell’imperialismo con il quale continuiamo a ingrassarci e poi, non certo secondariamente, ci costringono a ripensare a tutti quei valori umani ai quali abbiamo abdicato, a causa della nostra cupida brama di benessere e di presunta sicurezza. In questo senso, come ha ricordato Diego Saccora, referente dell’Associazione “Lungo la Rotta Balcanica” nel piacevole dibattito seguito alla proiezione, quei luoghi di abiezione carceraria ai quali la nostra indolenza condanna a sopravvivere centinaia di migliaia di persone, sono diventati dei veri e propri laboratori di una nuova umanità più giusta, solidale e caritatevole. Il termine latino Caritas, che è davvero a fondamento della nostra civiltà, anche se ce lo siamo dimenticato, non è altro che la traduzione dal greco di Agàpe. Tomi Mellina Bares, co-regista del mediometraggio, con la sua voce gentile e la sua raffinata capacità d’introspezione, ha tenuto a sottolineare come, nonostante l’astiosa acrimonia di tanti, per fortuna la società multiculturale e multietnica sia già in atto nelle nostre città e nei nostri paesi e che un nuovo assetto europeo e occidentale, presto o tardi, non tarderà a manifestarsi. La schizofrenia della montante xenofobia europea certificata anche dalle recenti consultazioni elettorali è, in realtà, paura e manifestazione di un latente nostro complesso di inferiorità nei confronti di chi non si risparmia di percorrere a piedi migliaia di chilometri in mezzo alle difficoltà più atroci per inseguire il proprio sogno di libertà, di giustizia e di futuro per se e per i propri figli. Siamo davvero ancora capaci di lasciarci portare dai sogni facendoci guidare solo dalle stelle?

© Flaviano Bosco per instArt