Ha fatto tappa nella nostra Regione, per alcune applauditissime repliche, il monologo teatrale con il quale il più grande attore del nostro tempo ha fatto ritorno al suo assoluto cavallo di battaglia.
Umberto Orsini, classe 1934, con una straordinaria carriera di oltre sessant’anni tra palcoscenico, cinema e tanto altro, in gioventù conobbe la fama strepitosa che ancora lo precede, con l’interpretazione del personaggio di Ivan Karamazov nello sceneggiato Rai del 1969 dedicato all’ultimo romanzo di Dostoevskij per la regia di Sandro Bolchi con una media di quindici-venti milioni di spettatori a puntata.
Riprese il personaggio nel 2014 nello spettacolo “La leggenda del Grande Inquisitore” per la regia di Pietro Babina e in questa edizione 2023 immaginandosi un Ivan logorato dagli anni che riflette amaramente, ma con la solita lucidità, sulle lontane vicende della sua sfortunata gioventù.
“Vorremmo distinguere, nella ricca personalità di Dostoevskij quattro aspetti: lo scrittore, il nevrotico, il moralista e il peccatore. Come raccapezzarsi in questa sconcertante complicazione?
Quello che desta meno dubbi è lo scrittore: il suo posto viene poco dopo Shakespeare. I fratelli Karamazov sono il romanzo più grandioso che sia mai stato scritto, l’episodio del Grande Inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo probabilmente senza confronti. Purtroppo dinanzi al problema dello scrittore l’analisi deve deporre le armi.”
Inizia così un celeberrimo saggio che Sigmund Freud destinò al grande scrittore russo e al suo ultimo romanzo (Dostoevskij e il parricidio, 1927) per poi continuare con un’inquietante ipotesi sulla sua nevrosi scaturita dal gravissimo trauma dell’atroce assassinio del padre e accresciuta dalle disavventure che gli capitarono, non ultima la finta fucilazione per sedizione e i successivi dieci anni di lavori forzati in Siberia, sufficienti per stroncare anche la mente più salda.
“I fratelli Karamazov” sono un romanzo-mondo che riflette sul senso dell’esistenza attraverso le vicende della famiglia Karamazov della media borghesia russa di fine Ottocento.
Il ricco, dissoluto, odiato e avido “pater familias” finisce per essere assassinato da uno dei propri figli, ognuno dei quali viene descritto come rappresentante di un tipo umano. Ivan è l’intellettuale tormentato e nichilista che non ha avuto paura di giocarsi la salute mentale in cambio delle asprezze della ragione materialistica. Momento culminante di tutta la vicenda è il processo che finisce per condannare il fratello sbagliato.
“Ah, la verità! Non è cosa da poco “tutta la verità”! Roba da restarsene alla sbarra degli imputati per tutta l’eternità, nel vano tentativo di individuarla, di denunciarsi, di condannarsi. E intanto vedere tutto intorno a sé l’umanità che si finge innocente…Questi brutti musi! Hanno tutti ammazzato il proprio padre e fanno finta di essere spaventati. Bugiardi. Un rettile divorerà quell’altro…”
Dostoevskij si specchia in Ivan Karamazov e per bocca di Umberto Orsini parla a ognuno di noi, tutti colpevoli di un crimine tra i più orrendi che non è tanto quello del parricidio, ma quello di aver rinunciato alla faticosa responsabilità dell’essere liberi, in cambio del dolce tepore delle nostre celle finemente ammobiliate di schiavi. Credendo di liberarci una volta per tutte del “principio di autorità” che ci condannava ad un perenne stato di minorità, ci siamo volontariamente assoggettati alla prigione della cosiddetta felicità. Dice il Grande Inquisitore a Gesù nel monologo di Orsini:
”Sappi che vi sono tre forze, tre sole forze sulla terra, in grado di vincere e incatenare per sempre la coscienza di questi esseri deboli che sono gli uomini e RENDERLI FELICI: il miracolo, il mistero e l’autorità…vivranno nello smarrimento e nella confusione e alla fine è da noi che verranno, ci cercheranno, ci troveranno e ci grideranno: – Sfamateci voi perchè colui che ci ha promesso il pane celeste ci ha lasciati soli – e saremo dunque noi a sfamarli nel nome tuo, sì: E alla fine porteranno la loro libertà ai nostri piedi e ci diranno: – Rendeteci pure schiavi ma sfamateci -”
Lo sceneggiato di Sandro Bolchi, che vedeva come interpreti anche gli inarrivabili Sergio Tofano, Salvo Randone e poi, tra i più noti, Corrado Pani, Lea Massari, Carla Gravina, ebbe un successo del tutto impensabile oggi con le proposte della tv generalista diventate sempre più sciatte, vuote e tutt’altro che educative.
Non serve dire che la tv nazionale ha del tutto colpevolmente abdicato alla propria funzione di servizio pubblico trasformandosi in un autentico cassonetto della spazzatura che viene continuamente riempito con rifiuti d’ogni genere, dai talk show, ai talent, fino ai quiz show e ai notiziari di regime.
E’ lo specchio della società italiana tutta intera che è andata involgarendosi e incanagliendosi sempre di più esprimendo, in questi ultimi decenni, il peggio di se stessa con l’omologazione dovuta al consumismo sfrenato che ha corrotto, piagato e reso pressochè irrecuperabile un tessuto sociale già fragile e degradato, in una decadenza che non sembra mai avere fine.
Dice il Grande Inquisitore a Gesù: “Perchè la domanda che più insistentemente l’uomo si pone su questa terra è, e tu lo sai, molto semplice: – Ditemi a chi genuflettermi, a chi affidare la mia coscienza e in che modo per non restare soli riunirci tutti quanti in un confortevole formicaio! Te lo confermo: l’uomo si è rivelato più debole di quanto tu pensassi e tu avendolo sopravvalutato hai preteso troppo da lui, e sgomento e infelicità sono l’attuale sua condizione, benchè tu abbia tanto sofferto per la tua libertà”.
L’Italia della fine degli anni ’60 non era certo migliore; lo sceneggiato “I fratelli Karamazov” andò in onda tra il 16 novembre e il 28 dicembre 1969.
Venerdì 12 dicembre alle ore 16,37 presso la Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano esplose la bomba della “Strategia della tensione” che inaugurò con 17 morti e 88 feriti la stagione dello stragismo di stato, sulle quali, tra falsità e depistaggi, nemmeno 50 anni di processi sono bastati a far luce.
Per quanto riguarda la cultura italiana, in generale, non è il caso di indulgere in ingiustificate nostalgie, si faceva sentire proprio allora una sconcertante involuzione di una grande tradizione la cui drammatica decadenza ci ha fatto precipitare nel degrado in cui siamo.
A provarlo ci sono le drammatiche parole profetiche di Pier Paolo Pasolini:
“E allora io posso dire senz’altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia. Questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che, in fondo, non ce ne siamo resi conto; è avvenuto tutto negli ultimi cinque, sei, sette, dieci anni; è stato una specie di incubo in cui abbiamo visto l’Italia distruggersi e sparire e adesso, risvegliandoci, forse, da quest’incubo e guardandoci intorno ci accorgiamo che non c’è più niente da fare”. (Pasolini e la forma della città 1974).
Sono passati cinquant’anni da quelle parole e nessuno può dire d’essere migliore. Quello di Orsini è un gesto eminentemente politico, riprendere quel discorso interrotto e incompleto in un aula di tribunale per gridare ancora e ancora:
“Io sono Ivan Karamazov, il poeta, l’amante, infelice, il malato di nervi…l’ateo supremo, il demistificatore, l’impenitente…e…soprattutto…una creatura incompiuta, senza un finale. Sono Ivan Karamazov e reclamo un finale. Esigo la mia sentenza!”
In tutti questi anni ognuno di noi come Ivan Karamazov è rimasto intrappolato in quell’aula di tribunale incatenato dalle proprie allucinazioni e dalle proprie febbri cerebrali.
Qualche decennio dopo l’istruttoria dei Karamazov, anche Josef K ebbe il suo “Der Prozess” nel quale Kafka racconta anche l’altrettanto enigmatica parabola “Davanti alla Legge”.
Orsini ha l’istrionica genialità di incarnare tutti questi personaggi confondendosi con essi, trascendendo la materia del proprio corpo mortale per diventare “atto”, parte attiva e diretta della vicenda sul palcoscenico ed eternandosi in essa.
Prima che lo spettacolo inizi si intravvede Ivan con cilindro in testa e cappottone, mentre si prepara sistemandosi dietro il drappo scuro semitrasparente che fa da funebre sipario, “il velo nero del tempo” che, infine, si apre per dar luogo a giochi di luce in chiaroscuro, che rivelano una scenografia cupa e meravigliosa che riproduce in stile Piranesi l’interno diroccato dell’antico mulino dove si tenne il processo per il parricidio nel romanzo di Dostoevskij.
Dopo l’autentica “coazione a ripetere” del monologo che riprende eternamente il paradosso della realtà, in cui da sempre Ivan non-esiste, che è la stesso in cui si “illude” ognuno di noi, nel finale Orsini e il suo Doppio recitano:
“In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano che cade nella terra non morirà, resterà solo; ma se morirà, darà molti frutti…” Io, purtroppo per me e per tutti i fratelli Karamazov, non morii, non mi fu dato un finale.
Oggi resto una contraddizione che sopravvive nel tempo, né vivo del tutto, né morto davvero. A metà strada tra i vivi e i morti, tra il bene e il male, la verità e l’errore…l’odio e…l’amore, anche quello. Si, perchè nonostante tutto, io non ho mai esaurito il mio amore per l’esistenza in sé…Amare la vità a dispetto della logica, e forse soltanto allora se ne potrà cogliere il significato…Non più ribellarsi, sognare, darsi pena…amare la vita e attendere la morte, come chicco nella terra, sperando allora di fiorire, un giorno o l’altro; col tempo…Il tempo…questo grande nemico.”
Umberto Orsini ha dichiarato che il senso di tutto lo spettacolo, sta in una frase della grande scrittrice francese di origine russa Nathalie Sarraute, che lui stesso ha voluto inserire ex novo nel copione che per il resto è una adattamento piuttosto fedele del romanzo, la riportiamo come chiosa finale: “La vera vita degli uomini e delle cose comincia soltanto dopo la loro scomparsa.”
Dixit!
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