Anche se già i primi rumors anticipano la nuova edizione del prossimo Far East Film Festival, alcuni fatti recenti ci indicano la necessità di riflettere ancora sui film della scorsa primavera.
La questione delle disastrose politiche di mancata accoglienza dei migranti a livello nazionale ed europeo si è fatta negli ultimi tempi sempre di più stringente attualità, soprattutto per il continuo depistaggio e autentico terrorismo mediatico che la narrazione populista del fenomeno mette scientemente in atto.
L’informazione e i mezzi di comunicazione la fanno da padroni nel pilotare la cosiddetta “opinione pubblica” creando consenso attorno alle malefatte più ingiustificabili di chi è stato eletto democraticamente per rispettare alla lettera le regole fondamentali e i diritti inalienabili di tutti e di ognuno. La “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” del 1948, sottoscritta da tutti i paesi del mondo (o quasi) non potrebbe essere più esplicita a riguardo. A parte lo “Spirito di fratellanza” che ne innerva ogni singolo articolo, il n° 13 e 14 sanciscono la libertà di movimento di ogni individuo e il suo sacrosanto diritto di asilo.
Il cinema può fare la propria parte nell’esortare i cittadini a non cadere nella trappola della propaganda terroristica che crea ovunque gli spettri della xenoinvasione e del “barbaro alle porte” per i beceri interessi dei soliti pasciuti grassatori.
Il recente clamore suscitato dal film “Io Capitano” di Matteo Garrone, giusto trionfatore della 80° Mostra d’arte cinematografica di Venezia, storia di due amici fraterni che se la fanno a piedi dal Senegal all’Italia, è stato in qualche modo anticipato dal Gelso d’Oro di Udine al film malese “Abang Adik” di Jin Ong (Malesia 2023) opera di stampo “neorealista” sulla miserrima essistenza dei migranti e dei clandestini a Kuala Lumpur.
La città asiatica, con le torri-gattacielo più alte del mondo, è una stratificata metropoli ipertecnologica; nell’Olimpo dei piani alti degli immensi edifici dai quali si può solo precipitare, vivono i ricchi, centinaia di piani più sotto nel fango e nelle lacrime della miseria vivono le anime morte degli esclusi, quelli che già Jack London aveva definito “Il popolo dell’abisso” e che, ancor prima, la sensibilità “oceanica” di Victor Hugo aveva indicato come “Les Misérables”.
I miserabili vivono per un sì o per un no nei sobborghi di tutte le nostre città, sono quelli che ci portano i pacchi o che trasportano le nostre preziose pizze o il sushi per le nostre cene sul divano o che, nel peggiore dei casi, dormono all’addiaccio sui marciapiedi trattati da rifiuti umani. Sono coloro ai quali spesso la nostra società non riserva alcun diritto se non quello di morire di fame, taglieggiati, abusati e perfino derisi e accusati d’ogni infamia.
Abang Adik di Jin Ong (Malesia 2023)
Il film si apre con una citazione molto significativa da “Ombra” del poeta rumeno Marin Sorescu: “Alcuni vivono esclusivamente nella propria ombra, e nemmeno nell’ombra intera, e forse, a volte, con una mano sola, a volte con un occhio solo.”
Abang e Adik sono due fratelli che vivono di espedienti nella più completa indigenza in una delle metropoli più grandi e più ricche del pianeta. Il primo è muto dalla nascita e lavora come un mulo a testa bassa e senza farsi troppe domande; il secondo parla troppo, crede di essere scaltro e furbo tanto che taglieggia quelli ancora più poveri di lui facendosi coinvolgere nel raket dell’immigrazione clandestina. Entrambi non hanno alcuna speranza di farcela, nell’inferno in cui sopravvivono non c’è alcuna via d’uscita o possibile riscatto.
Anche le associazioni non governative e gli operatori del sociale che cercano di fare il possibile sono in realtà del tutto impotenti di fronte ad un sistema di produzione e consumo che genera colossali profitti e allo stesso tempo altrettanta sofferenza. Unica via d’uscita per molti non sembra essere altra che il suicidio visto le condizioni d’abiezione, di sfruttamento e i tuguri nei quali sono costretti a vivere conservando i loro sudati risparmi in scatole di latta.
Il film racconta però anche della grande amicizia e fratellanza tra i due che nonostante tutto continuano a volersi bene. Il loro affetto è rappresentato dal regista in una sequenza molto tenera che si ripete più volte. L’elemento base della loro alimentazione e anche l’unico che riescono a permettersi sono le uova che cucinano sode, i due le sgusciano battendosele reciprocamente sulla testa.
L’incubo sempre presente è quello della polizia che da un momento all’altro può catturarli e cacciarli, per evitarlo bisogna dimostrare di essere nati in Malesia (Jus soli).
Lavorano entrambi ai mercati generali come sguatteri e uomini di fatica, l’unica cosa che possono permettersi è di sognare l’amore in uno specchio al mercato degli stracci.
L’anti immigrazione li perseguita in una caccia all’uomo continua che produce solo corruzione e dolore senza minimamente risolvere i problemi di quei tanti che desiderano solo sperare in un futuro migliore. Chi non può pagare la protezione o non può ungere le ruote del potere è costretto a vendere perfino se stesso, pezzo per pezzo, per sopravvivere; ci si ricorda dei denti di Fantine nel capolavoro di Hugo?
Senza perdere ancora troppo tempo per entrare nei dettagli di un film che va soprattutto visto e “ruminato” per bene ricordiamo solamente la dedica del citato capolavoro di Victor Hugo che deve essere considerato come una guida nei terribili giorni che stiamo vivendo e quelli peggiori che ci aspettano.
“Fino a che esisterà, a causa delle leggi e dei costumi, una dannazione sociale che in piena civiltà crea artificialmente degli inferni e aggiunge una fatalità umana al destino, che è divino; finchè i tre problemi del secolo, la degradazione dell’uomo nel proletariato, l’abiezione della donna per fame, l’atrofia del fanciullo per tenebra, non saranno risolti; finchè, in certi settori, sarà possibile l’asfissia sociale; in altre parole, e da un punto di vista ancor più ampio, finchè esisteranno sulla terra l’ignoranza e miseria, libri di questa specie potranno non essere inutili”.
Allo stesso modo, film come quelli di Jin Ong e di Garrone rimarranno a testimonianza di tutta la nostra protervia e la nostra indifferenza.
Coast Guard Malaysia: Ops Helang di Pitt Hanif (Malesia, 2023)
Drammatico testimone della cattiveria del nostro tempo è involontariamente anche un film del Feff 2023 che non ha vinto proprio niente, perchè dal punto di vista strettamente cinematografico si trattava di un action fracassone e smargiasso come tanti altri senza infamia e senza lode. Per quanto riguarda i pessimi significati che veicola, merita di essere visto come specchio dei nostri Mala tempora.
Nel nostro immaginario di Italioti la Malesia è una misteriosa terra di pirati, tigri e bellissime principesse da salvare, romantici ed eroi da bar sport. Salgari ci ha rovinato per sempre con il suo Sandokan e il suo implacabile antagonista, il cattivo Rajah Bianco Brooke.
Pirati nell’isola di certo ce ne sono ancora, così come trafficanti di droga, d’organi, di clandestini e di ogni sorta di porcherie illegali, almeno a stare a ciò che racconta il film, e noi ci crediamo sulla parola, quelli non mancano mai nemmeno in Italia.
A contrastarli però non ci sono più le truppe coloniali inglesi, ma gli agguerritissimi e iper tecnologici “Seal” della Guardia Costiera malese cui è dedicata la “pellicola”.
Nei fantastici resort sulle spiagge malesi per danarosi turisti spensierati, ci si fa un sacco di selfie, si paga con carte di credito gold, si mangiano crostacei, sorseggiando champagne con le cannucce. Il film è confezionato come il peggiore tra gli spot pubblicitari a scopo apologetico turistico-nazionalistico per la guardia costiera.
Come dicevamo, la pellicola cinematograficamente vale molto poco ed ha una qualità di sceneggiatura e regia a dir poco dilettantesche, nemmeno al livello delle puerili sciocchezze della prima serata di Rai uno sulle forze del nostro paese interpretate da quel buontempone di Terence Hill.
L’esile, scontata trama racconta di terroristi sporchi, cui il rambo di turno ha guastato i piani. Sono tutti ferocissimi trafficanti di droga, d’armi e di persone. Tutte bestie senza cuore, tagliati con il coltello da chissà quale fantasia bacata, sceneggiatori che a stento devono aver superato le scuole elementari così come la media degli spettatori cui si rivolge. Un prodotto cinematografico d’infimo livello dove i buoni sono molto, molto buoni e i cattivi cattivisstimi.
Il racconto dichiaratamente vuole essere una vetrina dei potenti mezzi a disposizione della efficentissima guardia costiera nella lotta all’immigrazione clandestina associata ad ogni altra nefandezza possibile, dal traffico d’organi a quello della droga fino alla tratta delle bianche. Modellato sui peggiori action di matrice hollywoodiana buoni per gli uffici reclutamento delle forze armate. Al di là della facile ironia, il film ci offre la straordinaria opportunità di vedere come la propaganda nazionalistica e populista agisca in tutto il mondo con modalità molto simili.
A noi occidentali, razzisti e colonialisti per definizione, fa specie sentire i componenti delle truppe speciali malesi recitare la professione di fede mussulmana prima di entrare in azione. A causa della turpe narrazione giornalistica cui siamo perennemente sottoposti, sentire urlare; “Allah Akbar” ci sembra non una pacifica, lode all’Altissimo ma purtroppo “roba” da terroristi con l’asciugamano in testa. Vedere che i “buoni” possono essere anche i devoti del santo Profeta Muhammad (benedetto sia il suo nome) è comunque un cambio di prospettiva che sgretola tanti stereotipi e rende il film meritevole almeno di una visione.
“Nel nome del dio misericordioso, O Allah sei il mio pilastro e il mio cercatore d’aiuto. Con la tua grazia farò la mia mossa, con la tua grazia avanzerò verso i nemici e con la tua grazia dichiaro guerra”.
E’ davvero straniante e fa effetto vedere come un linguaggio così stereotipato e cinematograficamente frusto e consunto, funzioni a tutte le latitudini, soprattutto in quei luoghi dove da sempre il colonialismo ha omologato e massificato i gusti di un pubblico sempre più vasto e infantilizzato.
La corruzione però non guarda in faccia nessuno e anche nella guardia costiera malesiana ci sono degli infami infiltrati che bramano vendetta. I cattivi però non ce la possono fare contro i prodi e inossidabili tutori dell’ordine che salvaguardano l’onore del corpo e della nazione. A propria volta le guardie hanno infiltrato agenti tra i delinquenti come nel classico “The Departed” di Martin Scorzese, rifacimento del blockbuster “Infernal Affairs” visto e rivisto al Feff lungo il corso degli anni.
In estrema sintesi Coast Guard Malaysia racconta di quanto siano coraggiosi e pronti al sacrificio quei militari che pattugliano incessantemente le coste malesi per impedire ai clandestini, mostrati tutti come ceffi da galera e matricolati delinquenti, di entrare e contaminare il sacro suolo della Patria con la loro cupidigia. Pur parlando del medesimo stato di “Abang Adik”, il film di Hanif utilizza una prospettiva diametralmente opposta; il fenomeno della migrazione va arginato e represso con la massima determinazione e forza, altro che “spirito di fratellanza”.
Un sentito, sincero ringraziamento agli organizzatori del festival di Udine che non risparmiano mai di accostare, quasi senza un criterio apparente, film in aperta contraddizione tra loro. Il cinema popolare è fatto così in ogni continente, non è necessario separare la zizzania dal buon grano. Citiamo infine correttamente il Vangelo di Matteo perchè non si dica che siamo a favore di questo o di quello: “Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “vuoi che andiamo a raccoglierla?” “No, rispose, perchè non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”; (Mt 28,43).
E chi ha orecchie per intendere intenda.
Visto che ormai abbiamo intinto la penna nel veleno, per concludere definitivamente le considerazioni sulla XXV edizione del FEFF, è il caso di spendere ancora due parole per stigmatizzare il cosiddetto nuovo fenomeno del cinema giapponese cui tanta attenzione è stata dedicata al festival
Techno Brothers di Watanabe Hirobumi, JPN 2023, 98’. Presentato come l’evento assoluto del festival si è rivelato per quello che è: un’ora e quaranta di vita buttata, un’operina che il pur dotato regista ha confezionato con tutta evidenza proprio per i festival occidentali imitando malamente i capolavori di Landis ( The Blues Brothers) e di Kaurismaki (Leningrad Cowboys Go America). Uno scalcagnato gruppo di musica elettronica ispirato ai Kraftwerk di Hütter e Schneider si arrabatta nella profonda provincia giapponese, orrende gag “telefonate” e banali, degne del peggior avanspettacolo, ne raccontano le disavventure. Non è nemmeno considerabile come una forma di intrattenimento popolare senza troppe pretese perchè, dichiaratamente la pellicola non mira alla distribuzione nel proprio paese, ma a quella festivaliera e internazionale che può rendere al regista una minima notorietà in vista di qualche finanziamento in più.
Che non sono solo acide supposizioni e malignità lo dimostra il delizioso “Your Lovely Smile” di Lim Kah wai, Jap 2022, 103’, mokumentary sulla vita e sulla carriera del giovane regista che interpreta se stesso e l’estrema difficoltà del suo arrabattarsi per diventare un autore riconosciuto.
In “TecnoBrothers” purtroppo il sedicente regista-artigiano si è volutamente distaccato da quello che aveva saputo dimostrare nei notevoli precedenti lavori (Cry, 7 Days, ecc.) proprio per colpire facilmente l’immaginazione degli appassionati occidentali che s’illudono di aver scoperto un nuovo Kitano. Il risultato è decisamente pessimo; per fortuna, passata la sbornia degli eventi promozionali, ha ottime probabilità di essere dimenticato.
Il regista di Otawara non è minimamente paragonabile al genio dell’ Asakusa Kid anche se ne vuole furbescamente imitare atteggiamenti e stile. Non ci resta che sperare che Watanabe si ricreda e torni sui suoi passi: un mediocre film con qualche originalità è sempre preferibile ad una mediocre imitazione: “Meno male che sei convinta tu, io sto uguale, mi chiedo solo se faccio male a volte a ridere di te.”
Arrivederci alla prossima edizione del Feff.
© Flaviano Bosco – instArt 2023