Nonostante un cielo che sembrava promettere un temporale estivo di quelli rovinosi, un vasto pubblico, non solo di friulani, tutti dal cuore gitano si sono radunati a Majano per assistere al concerto di uno dei più grandi musicisti pop-rock della storia dei Balcani.
Goran Bregović ha nella nostra Regione e oltre uno zoccolo duro di fedelissimi fan di lunga data che non si perderebbero una sua esibizione per nulla al mondo. Bene ha fatto il Festival di Majano ad inserire anche lui e la sua “Wedding & Funeral Band” in un cartellone per il resto pensato per i gusti commerciali e istagrammabili dei giovinastri.
Giovane Bregović non lo è più come molti dei suoi fan, ma di certo conserva come loro una grande vitalità e voglia di divertirsi condividendo dell’ottima musica. Ad essere proprio sinceri, pur amando alla follia e rispettando l’arte del compositore-performer jugoslavo, bisogna ammettere che non tutto è filato liscio nell’esibizione di Majano che è apparsa, in alcuni momenti, poco spontanea, routinaria e, ancor meno, ispirata.
Chi si ricorda i concerti di Bregović degli anni ’90 o anche solo quelli dei primi del nuovo secolo, sa che erano un’esplosione di colori ed energia creativa inarrestabile, una vera e propria “festa mobile” che travolgeva il pubblico con la sua allegria e la sua forza turbinosa. Non è più così, molte cose sono cambiate e non potrebbe essere diversamente.
Il compositore bosniaco ha compiuto 73 anni e si cominciano a vedere tutti, non tanto nell’aspetto fisico che continua ad essere piacente ed elegante, ma nella stanchezza dell’artista e della sua proposta musicale basata sulle solite hit riproposte all’infinito in una scaletta ormai piuttosto logora e sempre uguale a se stessa.
Ben inteso non si può non amare Bregović, soprattutto se si considera cosa ha dato al mondo della musica, ma, se fino a qualche tempo, fa potevamo considerarlo come lo zio matto e geniale che ci faceva tanto divertire da bambini, oggi dobbiamo ammetterlo, è un vecchio leone che non ruggisce più.
Eusebio Martinelli e la sua Gypsy OrkeStar. Eusebio Martinelli (tromba, voce) Jack Banny “La Falena” (chitarra) Chris “Bastone” (basso) Albert “P.I.Z.Y” 22 (batteria).
Eusebio con la sua tromba e il cappellaccio in testa sembra un personaggio de “La strada” di Fellini, è un vero saltimbanco in un minestrone gitano-padano tra clownerie, intrattenimento e comiche slapstick. Con il suo frack di lamè con il cilindro ricorda il corvo Rockfeller del ventriloquo Josè Luis Moreno dei pessimi anni ’80 di Canale 5.
Banny il chitarrista veste uno scenografico kilt scozzese, sembra un punk rocker ed ha un approccio allo strumento degno del suo aspetto: ruvido, sconclusionato ed efficace. La batteria di P.I.Z.Y. è illuminata dall’interno da più di una fila di led cangianti tipo “albero di Natale” che creavano la giusta atmosfera caramellata molto “Luna park”.
In alcuni momenti l’orchestrina ricordava persino i Gogol Bordello. Nell’immaginario fantastico moderno poche cose sono così evocative come un pagliaccio con la tromba. Sempre continuando con i riferimenti al regista riminese, si guardi attentamente “I Clown” uno dei suoi film più dimenticati, per scoprire quale arcano mistero lega i labiofoni al naso rosso dei pagliacci.
La musica della piccola orchestra non è particolarmente raffinata, ma è molto coinvolgente. La tastiera e gli effetti elettronici della tromba fanno molto anni ’80 e rendono il sound alla Sandy Marton indigesto per gli orecchi raffinati, ma gustoso, ottimo e abbondante per i palati popolareschi che la band imbocca a grandi forchettate di musica grassa, succulenta e unta.
Per confermare questa osservazione, che può sembrare snobistica, il leader fa riferimento in più di un’occasione alla colonna sonora del famigerato cartone animato giapponese “Kiss me Licia” comprese le depravazioni di una generazione per Cristina D’Avena. Senza dubbio la Gypsi OrkeStar assicura uno spettacolo gradevole e divertente e non bisogna stare a pensarci troppo, basta solo goderselo.
La loro hit di maggiore successo s’intitola “La danza sul sabbione”, è una “roba” da balera con cui nemmeno il migliore dei Casadei potrebbe competere e per non farsi mancare proprio niente, nel travolgente finale di set, intonano anche una versione funambolica e turbo folk del “Volo del calabrone” di Rimsky Korsakov. Eusebio scende perfino tra il pubblico continuando a suonare con la sua tromba mentre l’orchestrina l’accompagna dal palcoscenico, pura arte circense al servizio di un divertimento scanzonato e leggero.
The Goran Bregović Wedding and Funeral Band.
Annunciato dagli ottoni, due trombe e due bombardini, Goran Bregović entrava nel solito completo bianco accompagnato da due coriste, il sax alto e il percussionista. Il cielo come per miracolo aveva deciso di imporsi una tregua, il pubblico era caldo al punto giusto.
I musicisti di Bregović sono una sorta di caleidoscopio delle culture balcaniche: le coriste sono bulgare, le trombe gitane, gli eufoni serbi così come le percussioni, se aggiungiamo che il leader è di nascita bosniaco, serbo e croato, capiremo quanta spezia e quanta energia si possa sprigionare da questa orchestra.
La scaletta prevedeva come sempre “canzoni vecchie e nuove, più alcuni brani per il cinema”
Molto apprezzati dal pubblico sono stati il tradizionale “Maki Maki” e soprattutto “Duj Duj” da una collaborazione con il musicista Rachid Taha dal fantastico album di duetti “Letters from Sarajevo”(2017) che Bregović realizzò con i migliori artisti del Mediterraneo in un florilegio di coloratissime contaminazioni. Sempre da quell’album, stupenda e ritmata, è risuonata anche “Mazel Tov” che pesca a piene mani dalla tradizione ebraica.
I brani nella loro esecuzione hanno seguito uno schema espressivo tipico del folklore balcanico: prima un dolente crescendo, cui segue una sorta di sospensione e poi un forsennato scatenarsi nel tipico movimento alternato di queste composizioni musicali che da una parte si richiamano al folklore e alle tradizioni musicali più antiche dei popoli slavi del sud, dall’altro agli stilemi del rock-blues in un matrimonio fecondo e felice. Il risultato è un incedere nostalgico, esitante e a volte doloroso, ma inarrestabile e al contempo festoso, è come il sole nella pioggia.
Gli ottoni e le percussioni esprimono allo stesso tempo dolcezza sfrenata e il cordoglio più nero e disperato, ma non si può star fermi con i piedi con quei ritmi indemoniati c’è chi danza come un orso stordito e chi come una silfide tutti come ipnotizzati dal Mandrake della musica balcanica, ubriachi di gioia e di sorrisi.
Quello che è certo è che le vecchie hit sono ancora in grado di provocare il delirio entusiastico del pubblico, Ederlezi, Mesecina ti fanno piangere fino all’ultima lacrima, fino a che non subentra la gioia di sorrisi incontenibili.
Sempre emozionante anche il semplicissimo refrain di “In the Death Car” che nella colonna sonora di “Arizona Dream” era cantata da Iggy Pop e che a Majano tutto il pubblico ha intonato insieme a Bregović alla chitarra, alle due matronali coriste, deliziati da un languido assolo di tromba.
Sono stati davvero trascinanti gli ultimi brani di ispirazione militaresca ma decisamente adatti ad una sfrenata serata in osteria, che ormai sono un must in tutti i concerti del musicista. Si è cominciato facendo scandire al pubblico il ritornello “Ar-ti-glie-ri-a” per poi passare alla militante “Bella ciao” che nella versione di Bregović fa battere forte il cuore di ogni partigiano vecchio e nuovo. La conclusione del trittico non poteva che essere la dinamitarda “Kalashnikov” boom, boom,boom, boom…una vera fucilata! Chi non diventa pazzo non è normale!
Dopo tanta emozione è però anche doveroso muovere qualche critica ad uno spettacolo certo piacevole, ma per aspetti non all’altezza dei momenti migliori della carriera tutta “Champagne for Gypsies” di Bregović. Sono così apparse molto fastidiose alcune basi ritmiche preregistrate che decisamente rovinavano l’atmosfera, soprattutto per quanto riguarda l’accompagnamento del basso elettrico tutto virtuale e francamente inaccettabile. Insostenibili anche alcune voci registrate che andavano perfino a sovrapporsi a quelle delle coriste bulgare.
A Bregović però si perdona tutto per il grande merito di aver fatto conoscere e divulgato al grande pubblico d’Occidente la grande cultura popolare dei paesi della ex Yugoslavia decisamente misconosciuti e a volte purtroppo disprezzati.
Per restare alla nostra regione, il pregiudizio antislavo ha radici antiche ed è tutt’altro che sopito e tanto meno sradicato, vi sono ancora alcune “superbie che paion persone” che letteralmente dileggiano o apertamente disprezzano i nostri fratelli dei Balcani, dimenticando che la storia delle genti friulane è assolutamente composita e intrecciata indissolubilmente con quella dei Balcani, delle genti dell’Europa centrale, con quelli che genericamente possiamo definire “latini” e con mille altri in un crogiuolo di etnie, lingue, tradizioni e culture unico e meraviglioso. Con i nostri fratelli slavi condividiamo oltre che parecchie gocce di sangue anche il savissimo miele della lingua poetica e del piacere per la musica e i ritmi. Tanto per capirci Bregović è nato in Bosia da madre serba e padre croato, sua moglie è bosniaca musulmana e chi più ne ha, più ne metta.
Anche se qualche friulano a volte non lo vuole ammettere e cerca di nasconderlo, dentro di se ha un cuore zingaro e anarchico. Bastava vedere il pubblico del concerto di Majano che tutto saltava e ballava al ritmo della musica zigana. Quelle che vibravano all’unisono erano le corde antiche del cuore di ognuno che nessun regime xenofobo sarà in grado di far tacere.
Negli anni’90 il compositore serbo-bosniaco insieme al suo sodale di allora il regista Emir Kusturica hanno abbattuto quel tratto di cortina di ferro culturale che per decenni aveva impedito agli europei dell’ovest di ascoltare e vedere le opere d’arte oltre frontiera. La censura che oggi si accanisce contro la cultura russa per i tragici fatti dell’insensata guerra imperialista ucraina è la stessa che nei decenni passati ha vilipeso prima la cultura tedesca, quella sovietica, musulmana, asiatica, africana e chi più ne ha più ne metta.
L’ottuso eurocentrismo, gli orchestrati deliri populisti e criminali di leader politici senza scrupoli, gli oscuri maneggi di manipolatori dell’opinione pubblica unita all’altrettanto nociva ignoranza e indifferenza dei più, acceca e boicotta il desiderio di pace che vive in ognuno di noi. Si ha paura e ci si difende con rabbia irrazionale soprattutto di ciò che non si conosce. La percezione del pericolo aumenta a dismisura quando si vive nelle tenebre dell’ignoranza e della diffidenza verso l’altro.
Sul confine orientale d’Italia, compresi i cosiddetti territori irredenti di Istria e Dalmazia nel corso del secondo dopoguerra, la squallida retorica revanchista ha costruito le proprie narrazioni terrorizzanti al solo scopo di ottenere il pavido consenso popolare.
La letteratura italiana ha saputo ben sottolineare quelle orrende prevaricazioni e quel clima che soprattutto durante l’epoca fascista rese l’atmosfera del tutto irrespirabile.
A partire dalle opere di Gadda, Pasolini, Buzzati, Calvino e altri è possibile leggere di quella bieca operazione di fascistizzazione della realtà del nostro paese che continua ancora oggi tanto da far coincidere i deliri di un alto ufficiale dei paracadutisti in iperventilazione con i programmi del maggiore partito di governo.
Naturalmente, esistono anche luminose eccezioni. Proprio a partire dalle suggestioni della musica di Bregović e di tutto quel movimento europeo degli anni’90 che possiamo chiamare “Yugo-nostalgia” alcuni ragazzi friulani cominciarono a coltivare il sogno di divulgare la letteratura e la cultura dell’est europeo nel nostro paese.
Nacque più o meno così l’avventura della Bottega errante di Mauro Dal Tin e dei suoi sodali che sono la casa editrice di punta di un settore che ormai non si può più chiamare di nicchia. Grandissimo anche il lavoro di divulgazione delle culture dell’est europeo compiuto dal Trieste film Festival e di altri che hanno fatto conoscere le cinematografie più dimenticate e preziose tra i Balcani e il Caucaso.
Molto è cambiato, per fortuna, da quando Bregović dichiarava: “E’ difficile essere jugoslavi al mondo! E’ come avere un marchio indelebile; ti porti dietro un passato e una storia che non t’aiutano in nessuna parte del mondo. Troppi pregiudizi, facili conclusioni per quelli che trovano sempre il tempo di farne. Io provengo da una terra che ha avuto grandi artisti ma che nessuno conosce. La nostra cultura, nella storia dei Balcani significa, tranne in rari casi, anonimato. Difficilmente le opere vengono firmate come avviene in Occidente: su nessun quadro, in nessuna chiesa o museo è posta una firma. Le opere dei nostri scrittori non sono tradotte, salvo alcune eccezioni, con il premio Nobel per la letteratura Ivo Andric’; il resto rimane nei confini o circola senza nome. Il mio destino, nel mio paese, è comune a tutti gli altri artisti che mi hanno preceduto. Qualcuno in futuro suonerà, e molti già lo fanno, le mie canzoni più famose, come “Ederlezi e Mesecina, in qualche matrimonio o funerale, senza chiedersi chi è l’autore, ma semplicemente suonandole. Per noi è importante che le canzoni tradizionali, quelle che tutti imparano a memoria e che suonano in qualche osteria mentre bevono, mangiano e ballano divertendosi vengano eseguite”. (Gaudino, 2005)
E’ così vero come Bregović ben sa, che le canzoni della tradizione balcanica non appartengono a nessuno, infatti, “Ederlezi” prima di essere suonata da lui ha avuto una storia tragica e antichissima in grado di unire interi popoli e culture diversi come racconta Angelo Floramo in uno dei suoi testi più ispirati “L’osteria dei passi perduti”.
Purtroppo non tutto è cambiato in meglio e certi vergognosi pregiudizi tardano a morire come conferma il recente divieto a Goran Bregović e alla sua band, di entrare in Moldova e di partecipare al Gustar Music Festival perchè considerati filoputiniani.
Secondo le autorità rappresentate dal ministro degli interni Adrian Efros vi sarebbero urgenti motivi di sicurezza nei confronti dell’artista bosniaco che “ha dimostrato una visione filo-russa e ha sostenuto l’annessione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa” perchè nel 2015 tenne un concerto a Sebastopoli nell’allora annessa Crimea. A poco sono valse le rassicurazioni di Bregović: “Era un concerto collegato al tour ucraino, organizzato dalla stessa agenzia. Sono di Sarajevo, sono traumatizzato dalla guerra, non posso essere a favore di nessuna guerra o di nessuna aggressione”.
Mentre la “vexata questio” del Kosovo sembra sul punto di riesplodere in tutta la sua virulenza e si susseguono pericolosissimi, tragici fatti di sangue e provocazioni su quelle lambiccate frontiere, è il caso di ripensare ad un vecchio progetto di Bregović dal titolo “Silenzio dei Balcani” che aveva lo scopo di favorire l’incontro, l’armonia e lo scambio tra le culture dei Balcani e del Mediterraneo.
La serie di concerti patrocinati dal comune di Salonicco nel 2000 si apriva con la voce di Winston Churchill che diceva: “I Balcani sono una polveriera, ma l’Europa non può vivere senza di lei. L’Europa deve trovare interessi comuni per vivere in pace in quest’area politico geografica”. (Gaudino, 2005)
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