Ritorniamo all’ultima edizione del Feff per riflettere su alcuni film della rassegna che ci sono sembrati particolarmente significativi, ma anche per ribadire che la manifestazione non è focalizzata solamente sulle proiezioni dei film in concorso o delle retrospettive. A corollario sono state create una miriade di iniziative che hanno lo scopo di far conoscere e godere della cultura e delle tradizioni asiatiche in tutte le loro sfaccettature. Il centro di Udine si è colorato ancora una volta di stand che presentavano i più diversi prodotti dell’estremo oriente, dai cibi, alla bigiotteria, dagli abiti, ai manga fino ai cosplay. Non sono mancati gli apprezzati workshop di calligrafia, yoga, meditazione, origami e nemmeno eventi in musica per ballare fino al mattino.

Particolarmente significativa l’esibizione dei gruppi folkloristici di ballo formati dalle ragazze delle comunità thailandesi e filippine della regione. Sotto la loggia di San Giovanni, in Piazza Libertà, le ballerine si sono alternate in coreografie e balli tradizionali che evocavano i loro paesi d’origine esprimendo quasi inconsapevolmente lo spirito con il quale da 25 edizioni si tiene il Feff: l’incontro di culture, così apparentemente distanti, attraverso il divertimento e la conoscenza del territorio. Delizioso il ballo filippino che richiamava la danza del “Tikling” un uccellino delle risaie (Hypotaenidia philippensis) che, come leggenda vuole, con i suoi movimenti aggraziati, le giravolte e il suo incedere delicato è in grado di sfuggire ai propri predatori.

Grazie anche alla presenza sul nostro territorio di persone di diversa origine possiamo così scoprire che l’Estremo Oriente non è poi così lontano, ma spesso “abita” nella nostra stessa città e addirittura nel nostro stesso quartiere. La cultura dell’incontro, la curiosità verso l’altro, lo scambio e il rispetto reciproco indubbiamente ci rendono migliori e il Feff ce lo insegna da almeno due decenni.

Cure di Kiyoshi Kurosawa, JPN 1997, 111’

È un triller investigativo venato di esoterismo e misteri psicologici. Nel plot il classico detective, bello e dannato, deve ricostruire la vita di un personaggio davvero perturbante che non ricorda niente di se ma che con la sua sola presenza costringe alcuni malcapitati a commettere orrendi ed efferati delitti. Sono omicidi del tutto insensati e imprevedibili dei quali nemmeno i colpevoli materiali sanno spiegare cause e motivazioni quasi fossero stati ipnotizzati.

Il detective che riesce a catturare lo strano personaggio che sembra essere la causa scatenante delle stragi, brancola nel buio fino a restarne profondamente turbato; a propria volta si trova alle prese con una situazione emotiva molto particolare a causa della moglie che manifesta segni di una precoce demenza.

La forza del film sta nella sua mancanza di enfasi e di roboanti scene d’azione che pure non mancano. La narrazione risulta asciutta, diretta, geometrica e pur avendone l’opportunità non si perde mai in sofismi e “spiegoni” troppo articolati. Alcune immagini contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa e straniante, angosciosamente onirica, per esempio quelle relative ai percorsi in bus e agli spostamenti in genere. Le riprese in quel caso risultano evidentemente fasulle, creando nello spettatore un effetto straniante del tutto particolare.

Certo il sotto-testo del film è anche quello di mettere in scena la diffusione forzata della psicologia occidentale in Giappone, in pieno contrasto con la cultura e le credenze arcaiche nipponiche, ma lo scopo del film non è di certo quello di fare un’analisi antropologica e nemmeno sociologica. Il film, in ogni momento, non dimentica mai gli stilemi del genere, solo per fare qualche esempio: il detective con il trench, fascinoso e trasandato, ma all’occorrenza altrettanto violento, la scimmia crocifissa mummificata, le ferite sanguinolente, il cinico supercattivo ecc.

Un certo riferimento molto superficiale al magnetismo animale di Rudolph Mesmer e all’ipnotismo in generale, diventano il pretesto per spiegare l’epidemia di violenza che si propaga a partire dallo strano individuo sul quale inizialmente si concentrano le indagini che si scopre essere stato brillante studente di psicologia.

Lo strano ragazzo si crede la reincarnazione di un missionario europeo di fine ottocento venuto nel paese del Sol levante a diffondere il proprio credo sanguinario, tra cristianesimo, mesmerismo e altre perversioni.

In Giappone, come nel resto del mondo, la psicologia positivistica con i suoi studi bizzarri e spesso inconcludenti che prevedeva come terapia, in buona sostanza, la contenzione, la chirurgia invasiva e solo in seguito la sedazione, era giustamente paragonata alla chiaroveggenza e all’occultismo di più basso livello e da ciarlatani, le autorità la proibivano e facevano bene.

Naturalmente, veniva comunque praticata e, nel corso delle indagini, il detective del film, non meno disturbato degli assassini cui da la caccia, trova come prova documentale una fantomatica sequenza di cinema dal vero degli albori che riprende una cosiddetta “isterica” giapponese.

La donna, si racconta, venne arrestata per aver ucciso il figlio squarciandone il collo una x proprio come gli assassini ipnotizzati contemporanei; nel finale, in un tripudio di riferimenti ai primordi dell’audiovisivo, compare perfino un rullo Edison con incise le voci delle prime “agitate” giapponesi.

Il piano sequenza finale alla Brian de Palma mostra una scena apparentemente pacificata nella quale però sta per compiesi un dramma, e quando lo spettatore si aspetta il peggio cala il sipario. Decisamente magistrale.

Trio di Park Chan-wook, Kor, 1997, 102’

Un vero pulp alla coreana che surclassa la sbruffoneria di Tarantino, ibridando il cinema action di Hong Kong con il surrealismo irriverente del primo Almodovar (“Labirinto di passioni” o “L’indiscreto fascino del peccato”) e ancora con la disperata vitalità del Lynch di “Strade perdute”.

In tutto il film sono disseminati “easter eggs” ipercinefili che richiamano l’attenzione sulla grande storia cinema; come al solito, locandine appese in punti strategici, accenni in colonna sonora, dialoghi deliranti ecc.

La vera particolarità della pellicola che traveste la solita storia criminale d’amore e d’amicizia tra i protagonisti sotto la tonaca dell’action più disincantato e “sbarazzino”, è quella di non prendersi mai troppo sul serio facendosi beffe anche dei generi, mescolando thriller, action, melodramma, commedia senza apparente costrutto.

Il regista al suo secondo lungometraggio evidentemente stava ancora tarando le proprie eccezionali doti creative ed espressive. “Trio” può così essere considerato un film pienamente sperimentale attraverso il quale l’autore ha scoperto la propria particolarissima sensibilità nei confronti dei lati più nichilistici e misteriosi del vivere umano: la tendenza all’entropia e alla distruzione di se che si esprime in una pulsione di morte totalmente priva di significato proprio così come deve essere.

Uno dei protagonisti con apparente indifferenza, tenta più volte il suicidio non tanto per motivi etici o per l’incapacità di sopportare un dolore devastante, ma quasi come fosse un gioco come tanti, senza significato. Come dice il poeta: “Tutto mi sembra inutile. Tutto mi sembra com’è. Farmi la barba o uccidere che differenza c’è.” Park Chan-wook nella sua filmografia, è tornato più volte sull’argomento e sulla sua rappresentazione, anche nell’ultimo “Decision to leave” (2022) che si conclude con un particolarissimo suicidio che “annienta” ogni possibilità di certezza sul suo significato, spiazzando lo spettatore.

Phantom di Lee Hae-young, Korea 2023, 133’

Nei cinque lustri del festival udinese non sono mai mancati i blockbuster di propaganda, fracassoni, ignoranti e del tutto insensati. Non poteva mancare nemmeno quest’anno dunque la spy story esagerata piena di suspance “telefonata”, inganni e sbalorditivi twist narrativi sugli eroi della patria, questa volta sud coreana, che si sono sacrificati per la libertà e per la giustizia e che avvolti nella bandiera additano il sentiero della gloria alle giovani generazioni.

I “cattivi”, in questo caso, sono gli invasori giapponesi rappresentati come insensibili mostri disanimati, che nei primi anni ‘30 picchiano con il loro pugno di ferro sui loro sudditi coreani, ma la resistenza partigiana e terroristica serpeggia tra attentati, sedizioni, coltellate, cecchini e femmes fatales doppio e triplo giochiste.

La verità è che non se ne può proprio più di questi minestroni indigesti di action moralisti e patriottici che non hanno niente da dire e non dicono niente se non la loro tronfia sicumera di prodotti di consumo nazionalpopolare.

Il regista, presente in sala, ha dichiarato testualmente davanti al fittissimo pubblico plaudente del teatrone di Udine dove tradizionalmente si tengono le proiezioni principali, che per guardare il suo film bisogna “spegnere” il cervello e lasciarsi guidare da quello che si vede; non è necessario sforzarsi di riflettere sul senso di quello che passa sullo schermo, basta solo goderne.

Davanti a dichiarazioni del genere anche al critico più integerrimo e agguerrito scema d’improvviso la voglia di combattere a suon di parole contro questa forma ottusa e imperante di consumismo delle emozioni che non si preoccupa nemmeno più di vergognarsi delle proprie malefatte.

Dang Bireley’s and Young Gangsters di Nonzee Nimibutr, Thailand 1997, 103’

Davvero un film intrigante e insolito, ottimo per sondare la penetrazione della omologante cultura americana alle più diverse latitudini. Questo bizzarro film Thai sulla consueta guerra tra gang, può essere agevolmente paragonato a “Grease” di Randal Kleiser (1978) forse è solo più violento, ma l’idea di raccontare le disavventure dei teppisti liceali del college a suon di rock’n’roll è assolutamente la medesima.

Quello che turba lo spettatore occidentale è il radicale contrasto tra i ragazzi delle gang vestiti con il chiodo di pelle, jeans e maglietta, con tanto di ciuffo alla brillantina, con l’ambiente circostante con le pagode, i mercati tradizionali, gli slums, e le ragazze vestite con il Sari Thai tradizionale e i sandali.

Per fare un paragone cinematografico vicino a noi, sembra l’Italia della “Hollywood sul Tevere” degli anni cinquanta e sessanta quando nelle borgate romane furoreggiava il rock’n’roll e milioni di ragazzi guardavano al mito di Elvis Presley attraverso gli ancheggiamenti di Adriano Celentano o ai vaneggiamenti di Nando Moriconi, la maschera dell’americano “auanagana” resa immortale da Alberto Sordi.

A parte l’ironia, il film di Nimibutr ha dalla sua il fatto di ispirarsi a criminali ferocissimi davvero esistiti che si vestivano e comportavano come James Dean nella Bangkok di sessant’anni fa con effetti, dal punto di vista della rappresentazione cinematografica, stranianti e al limite della surrealtà.

Molto curata anche la fotografia con colori saturi ed effetti di “grana grossa”, con velature e graffi sulla pellicola che danno l’illusione del tempo passato. La cultura pop americana ha contaminato il pianeta a tutte le latitudini divenendo un veicolo di penetrazione anche politica e sociale.

Fa parte delle dinamiche dell’imperialismo a stelle e strisce quello di indurci a sognare di vivere le nostre migliori emozioni degli “Happy Days” in un fast food di Milwaukee insieme a Fonzie e alla famiglia Cunningham, facendoci dimenticare di essere solo dei burattini che non si accorgono nemmeno dei fili che li legano.

Come canta Bennato: “E’ stata tua la colpa allora adesso che vuoi? Volevi diventare come uno di noi, e come rimpiangi quei giorni che eri, un burattino ma senza fili e adesso i fili ce l’hai. Adesso non fai un passo se dall’alto non c’è qualcuno che comanda e muove i fili per te.”

(continua)

© Flaviano Bosco – instArt 2023