Almeno per il momento, lo spettacolo “A piedi nudi sul bordo del mondo. Suoni e voci lungo la frontiera” ha concluso la propria fortunata tournée con un’applauditissima replica al teatro Palamostre di Udine.
Angelo Floramo, istrionico mattatore e raffinato intellettuale, ha guidato una riflessione per parole, musica, stati di immaginazione insieme agli straordinari musicisti del trio Fior delle Bolge: Federico Galvani (fisarmonica, tastiere), Alan Liberale (batteria), Luca Zuliani (violoncello).
I musicisti eseguono composizioni originali o che hanno legami storico-popolari con il Friuli e s’ispirano e riarrangiano musiche e canti del confine con la Slovenia o canti sinagogali della tradizione ebraica di Gorizia oppure di autori del XVI sec. come Alessandro Orologio.
Il lettore delle modeste righe che seguono vorrà perdonare se non si tratterà della solita cronaca teatrale o pedissequa recensione. Gli stimoli trasmessi durante la serata al Palamostre sono stati talmente tanti che quelle che si cercheranno di raccontare sono solo alcune delle personali suggestioni e anche delle digressioni che lo spettacolo ha suscitato. Chi cercasse a tutti i costi obiettività ed equilibrato sentire dovrà rivolgersi altrove.
La cavea di un teatro ha la forma di un occhio: quando si spengono le luci in sala, si spalanca l’enorme palpebra di una realtà che è quella dei nostri cuori.
I veri attori, sulla scena siamo noi che sediamo comodi sulle nostre poltrone imparando a guardare coloro che ci guardano.
Anche la cosiddetta quarta parete è una frontiera che spesso si trasforma in un confine. E’ così quando lo scambio s’interrompe o viene imposto, quando il palcoscenico si trasforma in una tribuna, in un pulpito o in un tribunale dove le certezze sono assolute e si presentano come verità e non momenti di riflessione o di dubbio attraverso i quali ci si mette in gioco sempre e di nuovo costruendo nuovi sogni e perfino incubi e deliri.
Angelo Floramo e i suoi musicisti conoscono bene questi meccanismi, sanno smontarli e rimontarli perchè funzionino prima a “piacere” e poi a “dovere”. Hanno la straordinaria capacità di empatizzare con gli spettatori coinvolgendoli in quella che di sera in sera non sembra più una recita, ma un racconto tra amici fatto in compagnia in una serata dove non si sente altro che, parafrasando il poeta: “il caldo buono e si sta con le quattro capriole di fumo del focolare”.
Sembra incredibile quando ci si trova in centinaia all’interno di un luogo come un teatro tutt’altro che informale, ma la sensazione di comoda familiarità era proprio quella che Floramo e i suoi trasmettevano.
Sembrava che dicessero che la frontiera non è un luogo lontano ma che è esattamente quello che abitiamo e non solo perchè il nostro territorio è da sempre luogo di incontro-scontro, contaminazione, fusione e meticciato tra le genti più diverse, ma perchè è proprio della condizione umana quello di essere identità mutevole e fluida, fragile canna al vento, corda tesa sopra l’abisso.
La prossemica è la disciplina che si occupa di studiare lo spazio e le distanze come fatto comunicativo; lo studio, sul piano psicologico, dei possibili significati delle distanze materiali che l’uomo tende a interporre tra sé e gli altri.
A seconda delle situazioni, dei momenti, delle società e delle culture cui apparteniamo.
Un abbraccio, una stretta di mano, uno schiaffo, un bacio, un passo avanti e due indietro, farsi largo, guardarsi con sospetto, tenersi a distanza, perdersi negli occhi dell’altro, oppure non farlo…
La storia del confine e della frontiera può cominciare dalla nostra epidermide che ci separa e mette in contatto con il mondo esterno e finire tra le fucilate sulla linea del fuoco del ponte Verbanja il 3 ottobre 1993 durante l’assedio, quando, nel sangue di Moreno Locatelli e di migliaia di altre vittime, morì l’Europa e il suo spirito di fratellanza.
Quell’infame linea che ha strangolato Alexander Langer soffoca tutti noi oggi a Gaza, dove il più sporco dei confini è diventato un nodo scorsoio.
“La leggenda racconta di una contadina, la signora Pina Zoff, che all’alba del 17 settembre del 1947 fu svegliata dal rombo dei motori delle camionette dell’esercito inglese che entravano nella sua proprietà, carichi di sacchi di calce bianca e bobine di filo spinato. La donna imbracciò il fucile che teneva carico appoggiato alla testata del letto, e scese di corsa le scale, confusa dal sonno e terrorizzata dall’idea che la guerra fosse improvvisamente ricominciata…Quel giorno la signora Pina Zoff scoprì che la sua fattoria era stata sacrificata sull’altare della geopolitica: lei e la casa dove viveva coi figli erano italiani, di Gorizia. La stalla, le mucche erano Jugoslave, di Nova Gorica. L’orto era metà italiano e metà jugoslavo invece. Verde come i dollari, la lattuga, rossi come la bandiera, i pomodori.”
Nella semi oscurità prende posto Federico Galvani che alla tastiera ha fatto cominciare quella storia di una sera; l’ha seguito Luca Zuliani al violoncello, e buon ultimo Alan Liberale alle percussioni.
Suoni lievi, dilatati, onirici per dare il tempo agli spettatori di prepararsi e farli desiderare quello che doveva seguire.
Una signora in platea molto radical e poco chic, già dopo i primi accordi languidi diceva alla vicina: “Ho appena fatto una lunga noiosa assemblea di condominio, se questi vanno avanti così mi addormento di brutto”. E forse paradossalmente lo scopo dell’introduzione musicale era proprio quello: assopire tutto il pubblico per risvegliarlo in un sogno nel quale fosse possibile volare in alto come un libero stormo d’uccelli e di lassù guardare i confini, i bordi del matto, matto mondo scoprendo che in realtà non esistono e sono solamente cicatrici che la storia e il potere hanno voluto. Esistono eccome le frontiere, quelle zone liminari dove i corpi dei paesi si baciano, si toccano, si compenetrano, perchè la frontiera è una donna che fa l’amore, che ti accoglie dentro di se. I sogni hanno le ali e per di più anche gambe veloci che non si possono fermare, corrono sopra i tetti dove sempre brillerà la luna.
Le frontiere con le loro porosità, la voglia di fare all’amore, di giocare e di abbracciarsi non piace a quelli là con le divise e con le bandiere che garriscono nel vento, a loro piacciono i recinti come quelli per gli animali, magari con il filo spinato. L’unica frontiera che concepiscono i loro piccoli cervelli e i loro cuori di sasso è la terra di nessuno tra due confini territoriali con tanto di sbarra e cavalli di Frisia. Sono persone che hanno nella testa un maledetto muro a cui fin troppo spesso, purtroppo, finiamo per assomigliare.
Nei pressi del confine italiano di Casa Rossa a Gorizia vi è l’antico cimitero ebraico della città in località Rožna Dolina (Valdirose), Nova Gorica, Slovenia; aperto tutti i giorni, ingresso sotto il cavalcavia. Le sue lapidi rivolte ad Oriente verso Gerusalemme raccontano storie haskenazite di pogrom, migrazioni, erranze, esili anche se oggi sono assediate dall’asfalto delle nuove strade a grande percorrenza
Angelo Floramo, attraverso la propria voce, lascia che sia il becchino emerso dalle nebbie del tempo a raccontare le storie delle tante anime che sono passate da quel luogo lasciandovi i loro corpi. E’ una sorta di affascinante nuova “Antologia di Spoon River” rivista e corretta in salsa ebraica.
La prima emozione è venuta con la storia, straziante e dolcissima del piccolo Jacob che non ebbe nemmeno il tempo materiale per peccare perchè morì giovanissimo, la morte bianca di un piccolo che inconsapevolmente si pone al di sopra di tutte le lordure di questo mondo e le tante lacrime della madre raccolte in un’ampolla da un angelo.
E poi Sara che in vita ha amato tanto e che molti hanno amato a prezzi popolari, tanto che la lapide sulla tomba ha voluto porla la comunità per ricordare tutte le Bocca di rosa che hanno amato senza guardare le divise o il colore della pelle e spesso nemmeno lo stato civile dei loro tanti morosi. Donne coraggiose e libere, più spesso nude che vestite o con indosso solo la loro sfrontatezza e una bandiera di tutti i colori, quella della pace. Qualcuno dice che a far la fila fuori dalla porta di Sara ci siano stati un po’ tutti in paese: il gendarme, il professore, il macellaio e qualcuno dice perfino l’imperatore, tutti felici e amici a condividere un bacio e un pezzetto di cielo in mezzo alle gambe.
Nel cimitero veglia oltre il confine della morte anche Aronne l’alchimista, che ha passato tutta la vita alla ricerca del nodo che tiene unite tutte le cose, ma è nelle pieghe del cuore che tu mi aspettavi Qoelet come la vergine che aspetta il suo sposo.
Nella Trieste dei primi anni del ‘900 le autorità austriache vagheggiavano di ripulire la città da certa immondizia umana in un modo piuttosto singolare che però di tanto in tanto anche qualche mentecatto, mutatis mutandis, continua a ritenere efficace.
Per risolvere il grave problema dei mendicanti, delle prostitute e dei ladri, sarebbe sufficiente caricare tutti su una grossa nave, un bastimento con una potente stiva per stiparvi a dovere tutti i poveri con le loro quattro carabattole e le loro puzzolenti miserie, poi li si potrebbe abbandonare alla “Litania dei flutti” senza una meta precisa; se poi incontrassero qualche isoletta lontana, lontana al di là dell’oceano che si meriti quella gramigna, allora potrebbero esservi scaricati. Intanto la città di Trieste potrebbe essere così ripulita da tutta quella bassa umanità e dal fetore che emana.
Una pensata che nel “secolo breve” ha proprio spopolato, basti pensare agli anarchici italiani che proprio in quegli anni venivano costretti all’emigrazione oltreoceano oppure alla nave Saint Louis che salpò da Amburgo nel 1939 carica di rifugiati ebrei alla volta degli Stati Uniti dove vennero rifiutati o ancora alla Exodus (1947) o a tutte quelle dei Boat people del mondo dal Vietnam, ad Haiti, fino al traffico di migranti nel Mediterraneo; anche se l’idea più geniale la ebbe il governo italiano nel pieno dell’emergenza Covid con il decreto n°1287 del 12/04/2020 che dispose la creazione di navi quarantena per gli immigrati appena sbarcati sul suolo patrio che, in realtà, servivano a riportarli al di là del mare il più presto possibile, con la scusa della profilassi.
Nel primo prezioso capitolo della sua “Storia della follia”, Michel Foucault accenna ad una pratica medievale che riguardava l’allontanamento dei folli dalle città della Germania del nord che ispirò anche il testo satirico dal titolo “Stultifera navis” (Nave dei folli) di Sebastian Brant (1494).
Non solo i pazzi, ma anche gli indesiderabili di varia natura:
“Accadeva spesso che venissero affidati ai battellieri: a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai vengono incaricati di sbarazzare la città da un folle che passeggiava nudo; nei primi del XV secolo un pazzo criminale è spedito nello stesso modo a Magonza. Talvolta i marinai gettano a terra questi passeggeri scomodi ancor prima di quanto avevano promesso; ne è testimone quel fabbro di Francoforte due volte partito e due volte ritornato, prima di essere ricondotto definitivamente a Kreuznach. Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli” (Michel Foucault, pag 16-17).
Floramo ha avuto la genialità di rovesciare anche questa prospettiva riuscendo a far cogliere al proprio pubblico un aspetto di quella tragedia secolare cui raramente si pensa. A bordo di quelle navi è cresciuta nella sciagura anche una forza di solidarietà straordinaria e si è mantenuto vivo lo spirito di fratellanza più autentico che la nostra opulenta, laida società ha finito col perdere nella continua defecazione dei valori più sacri cui ci siamo costretti, ingollando voluttuosamente l’olio di ricino del Capitale.
La Nave dei Folli, da mezzo di segregazione e deportazione, possiamo immaginarcela come una nave pirata, un laboratorio galleggiante di libertà dove tutti sono uguali e che naviga verso un futuro di speranza, verso i mari aperti.
Con un balzo temporale non indifferente gli spettatori si sono ritrovati poi catapultati ad Aquileia nel 1516 proprio nel bel mezzo di una predica del santo Inquisitore che parlava del Maligno che si fa beffe e ride di lui alle sue spalle. Satana è astuto, simula e dissimula, si traveste.
L’inquisitore confessava le proprie tentazioni durante la tortura di una giovane presunta strega. L’ansimare della condannata, la sua pelle nuda, il suo dolore sotto lo staffile evidentemente gli procuravano piacere ed era proprio quella la prova paradossale che il demonio si era impossessato della donna, ciò che lo costringeva a provare piacere sadico diveniva la prova schiacciante della colpevolezza della traviata, anche al di là della sua propria volontà.
Sono stati i musicisti a suggerire che l’inferno può essere una corda pizzicata o il pulsare di un tamburello. Come non citare in questo caso “Il primo libro de’balli accomodati per cantar et sonar d’ogni sorte de instromenti di Giorgio Mainerio Parmeggiano Maestro di Cappella della S. Chiesa d’Aquilegia” (1578) proprio di quel musicista del quale l’inquisizione non riuscì a liberarsi anche se negromante, astrologo e mago per pubblica fama che si diceva partecipare a sabba notturni tra riti e strane danze…Schiarazule marazule la lusigne, la cracule, la piciule si niciule di polvar a si tacule…che poi è un modo tutto “furlano” di avviarsi a cantare gli infiniti mondi di Giordano Bruno.
Con una vertiginosa accelerazione la macchina del tempo è balzata a Gorizia negli anni ’30 per rievocare la storia di Mirko Brezavšč (1917-1931) torturato e ucciso in carcere dai fascisti perchè rivendicava insieme ad altri studenti il diritto di parlare la propria lingua madre in un paese culturalmente e politicamente marcio che non voleva riconoscere le proprie origini multilinguistiche e multiculturali, lo stesso che oggi nega alle persone di fede islamica di potersi inginocchiare e pregare sul suolo patrio che è costituzionalmente anche il loro, che se lo meritano ogni giorno con il sudore della fronte e che gli fa urlare: “Siamo tutti monfalconesi”.
Floramo in scena mentre evoca i fantasmi del passato si beve un “taglio” di rosso, all’osteria del Palamostre si fa festa e basta un po’ di vino e l’odore della jota, per sentirsi fratelli di quella gente dalle mani grandi e dagli occhi per guardare che abita in case povere di tutto ma piene di quello che conta.
E poi arrivano i fascisti con le loro urla, i tacchi dei loro stivali, i manganelli e con la rabbia e l’orgoglio di essere italiani che gli avvelena il sangue e gli impedisce di ragionare e fare silenzio in modo che i bambini continuino a sognare.
Fior delle Bolge cantano in sloveno un’incantevole: “Zaki tle poletje se ohladi v času sončnega zahoda…perchè qui l’estate si raffredda dentro il tempo di un tramonto. Vieni qui torna dai campi è tardi ormai che domani si va a scuola. Tornano a casa, tornano a casa, tornano a casa di notte, i ragazzi stanchi…”
Molto divertente e con un pizzico di nostalgia il ricordo di quando, negli anni ’70, il confine con la Yugoslavia, per i friulani e gli udinesi in particolare, era solo le formalità da sbrigare per “andar de là” in automobile a far rifornimento di benzina, carne e sigarette trasformandosi tutti in piccoli contrabbandieri per qualche stecca in più senza dimenticare, per qualcuno, di far visita ai casinò con o senza accento sull’ultima vocale, per sfogare ben altre necessità. Va da se che quest’ultime italiche abitudini non sono per nulla cambiate.
Ben più drammatica la rievocazione della via che corre oltre ogni nostra indifferenza: la linea della migrazione balcanica. Dalla Grecia, passando per la Macedonia, la Serbia, la Croazia, la Slovenia arrivano ai nostri confini migliaia di persone che hanno attraversato l’Asia o l’Africa con mezzi di fortuna fuggendo da guerre, miseria e persecuzioni che noi trattiamo come numeri e che incarceriamo come criminali ancora prima di dargli una qualunque identità. Sono fantasmi che sognano ponti e trovano muri, che non hanno niente e vengono spogliati anche della dignità, costrettti a mendicare per anni, in condizioni miserabili, quell’ospitalità che spesso gli viene poi negata da noi che avremmo il dovere sacro di dargliela.
Invece del simbolico pane del sale e di una stretta di mano amichevole, questi nostri fratelli in cammino, vengono immediatamente incarcerati in “Centri per i rimpatri” che sono veri e propri campi di concentramento che aggiungono solo dolore al loro dolore.
Alcuni amministratori regionali, che hanno giurato sulla Costituzione repubblicana, riescono solo ad insudiciarne i fondamenti sostenendo le tesi della xenoinvasione, sostituzione etnica, Piano Kalergi e via delirando.
Perfino il Wwf del Friuli Venezia Giulia, dimostrando rara sensibilità, si è spinto fino a d affermare attraverso la presidente Martina Felician: «È insostenibile dal punto di vista ambientale l’abbandono nei boschi, privo di ragionevole motivazione, di indumenti, zaini e altro». (Gazzettino, 01/12/2022)
Floramo e i suoi musicisti hanno intonato allora una struggente “filastrocca delle cose perdute nell’erranza” nella quale si elencavano mestamente le misere cose che si rinvengono nei boschi del Carso dove i nostri fratelli sono costretti a bivaccare, nascondendosi come animali braccati mentre “noi viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, noi che troviamo tornando a sera il cibo caldo e visi amici…”
La serata si è chiusa con un’altra canzone dai suoni sospesi e valvolari di tastiera e dalla ritmica setosa; Galvani ha una voce profonda e scura senza essere gutturale o troppo forzatamente drammatica. Nei suoni del violoncello di Zuliani si sentono i gabbiani volare oltre le linee delle case verso l’orizzonte fatto dei paesaggi artificiali delle luci teatrali di Mau Willy Tell.
Certo tutto lo spettacolo sa di nostalgia e di lontano, è pervaso e costruito su di una tristezza dolcissima, dalla bocca impastata di vino forte e rosso come il sangue.
Che lo si creda o meno, l’arte è ancora in grado di essere una ragione di vita. Attraverso le sue suggestioni possiamo ancora immaginare il mondo, progettarlo, cambiarlo. L’esperienza del teatro soprattutto è in grado di espandere e aumentare le nostre percezioni, rendendoci capaci di sentire più in profondità la realtà che ci abita. Ci sono persone con una sensibilità talmente smeraldina da essere completamente pervasi dallo spirito della narrazione che è prima ascolto, poi immaginazione e infine poesia. Floramo è uno di queste, i musicisti di Fior delle Bolge, non da meno, riescono a muovere le corde del cuore senza la retorica del “troppo pieno”, evocano le assenze, ritmando i silenzi e la materica astrazione di quei sogni di cui solo è fatta la nostra esistenza e nel cui spazio e tempo è raccolta la nostra breve vita, come diceva quel signore inglese.
Applausi come un brindisi alla frontiera e non al confine.
© Flaviano Bosco – instArt 2023