La XXXIII edizione del festival udinese è stata così ricca che merita ancora qualche parola per raccontare alcuni eventi che forse abbiamo trascurato nelle recensioni precedenti.
Una delle novità di quest’anno è stata la diffusione di concerti e incontri in molti luoghi anche insoliti della città che alcuni considerano periferia: Via Riccardo di Giusto, Quartiere Aurora, Borgo Stazione.
In realtà, sono zone a “pochi passi” dal centro. In una città di dimensioni normali sarebbero considerati rioni, ma Udine ha un carattere e pregiudizi del tutto propri compresi tutti i pregi e i difetti di un paese di campagna troppo cresciuto. La sua storia millenaria e il suo prestigio la fanno però qualificare come città.
Alcuni suoi “problemi” se paragonati a quelli di altre città di grandi dimensioni della pianura padana perdono di consistenza e risultano essere poco più che beghe di cortile o baruffe di goldoniana memoria.
Al festival si è discusso, per esempio, della carenza di luoghi di dimensioni idonei per la musica e la cultura diffusi in tutti i quartieri. A livello amministrativo sembra un problema irrisolvibile in una città che paradossalmente, quando era molto più piccola, aveva decine di cinema, teatri, sale da ballo, auditorium, senza parlare dello Stadio, del Palasport e di tutte le caserme e delle vecchie realtà industriali dismesse e lasciate al destino che gli immobiliaristi decideranno che non sarà di certo quello delle attività culturali a sfondo sociale.
Per fortuna, sembra essersi deciso il restauro almeno del bellissimo ex cinema Odeon il cui futuro sarà quello di nuovo polo culturale della città per concerti, mostre, convegni ecc. Mentre risulta ancora precario quello del Cinema Centrale, storica sala del centro città, che fu ricavato in un palazzo trecentesco e che qualcuno vorrebbe ora trasformare in un supermercato in perfetta linea con i tempi.
Se n’è discusso con ottimo profitto, proprio in via Riccardo Di Giusto, considerata a sproposito negli anni ’80 il Bronx della città di Udine, tra alcuni assessori del Comune di Udine (Pirone, Marchiol, Dazzan) e il presidente di Euritmica (Giancarlo Velliscig), moderati dal caporedattore delle pagine culturali del Messaggero Veneto (Oscar d’Agostino).
E’ risultato subito chiaro di come il capoluogo friulano non abbia bisogno di infrastrutture faraoniche e di investimenti multimilionari, quello che basta è razionalizzare l’esistente intervenendo dove è necessario con opportuni ammodernamenti senza snaturare un tessuto urbanistico che dispone già del necessario. Il nodo cruciale è riaprire gli spazi che, per un motivo o per l’altro, rimangono sbarrati nei vari quartieri della città, smettendola di pensare ad eventi che guardino solo al centro come punto di attrazione. Diffondere sul territorio, coinvolgendo anche i comuni limitrofi come succedeva un tempo, potrebbe davvero essere la scelta vincente.
Negli ultimi anni, al contrario, non si è fatto altro che concentrare tutta l’attenzione su un’unica via considerata “elegante” della città discriminando, depauperando e impoverendo, culturalmente e commercialmente, tutte le altre.
Tra i pregi assoluti di Udin&Jazz 2023 va il merito di aver fatto riscoprire le possibilità attrattive del resto della città che a partire dalla musica e dall’arte può essere rivitalizzata e resa degna ancora una volta della propria meravigliosa storia, al di là dei soliti campanilismi strapaesani e della malcelata xenofobia che ogni tanto traspare dalle sete e dalle organze di una città pasciuta e spesso addormentata.
Di seguito la recensione di due concerti della rassegna che hanno avuto luogo in due luoghi meno canonici che hanno rivelato tutte le loro suggestioni e possibilità, il primo nel rilevato della centralissima e stupenda piazza Libertà di Udine e l’altro al defilato ma altrettanto bello Parco Brun.
Roberto Ottaviano Eternal Love 5et
Marco Colonna (clarinetto basso) Alexander Hawkins (piano) Giovanni Maier (contrabbasso) Zeno De Rossi (batteria) Roberto Ottaviano (sax).
Ottaviano è senz’altro una delle migliori ance del jazz italiano degli ultimi decenni, non è stata per nulla una sorpresa il fatto che lo scorso anno la giuria di Top Jazz della rivista Musica Jazz lo abbia riconosciuto come “musicista italiano dell’anno” perché “Con grande tenacia e lungimiranza prosegue nella sua fervida attività di ricerca” come recitava la motivazione.
A distinguerlo, infatti, è il grande spirito di sperimentazione che connota tutta la sua attività, soprattutto per quei lavori che sono documentati dalle incisioni per la storica etichetta d’avanguardia Splas(h).
Ottaviano, purtroppo, è meno conosciuto dal grande pubblico, rispetto ad altri che calcano i palcoscenici nostrani perché la sua arte, per fortuna, è meno commercialmente spendibile, non è istagrammabile o social, non è un prodotto omologato e standard buono per tutti gli stomaci, non risponde ai soliti clichés della musica d’oggi. Anche nel jazz italiano gli stereotipi si sprecano e i musicisti che non vi si adeguano hanno la certezza di passare commercialmente in secondo piano.
In ogni caso, la musica che resta di solito è quella vera e il premio di top Jazz è stato conferito al sassofonista anche per la “tenacia” che prima o poi paga sempre.
Come ogni grande musicista Ottaviano sa attorniarsi di altrettanti pari così com’è Marco Colonna, in questo caso, al clarinetto basso, suo strumento d’elezione insieme alla variegata famiglia dei sassofoni. Al di là di ogni dubbio è uno di grandi talenti conclamati della scena italiana, probabilmente il migliore interprete del suo “legno”. Lo unisce al band leader una comune passione per Coltrane e come poteva essere diversamente? Durante l’esecuzione del primo brano, infatti, si è fatto sentire un prezioso omaggio al classico “My Favourite Things”.
A fare la differenza, come sempre, la presenza del contrabbasso di Giovanni Maier. Che ad un certo punto ha deliziato il pubblico con un suo assolo astratto e pensoso che ben si adattava alla piazza che durante il medioevo era dedicata alle pubbliche esecuzioni.
Ma c’è stato il tempo anche per brani gioiosi e perfino divertenti e queruli da sembrare filastrocche per bambini, il ritmo era quello di una danza goffa che sfociava in un solo di clarinetto basso in dialogo con il soprano davvero intenso e piacevole.
I punti di riferimento dell’ensemble, oltre naturalmente a Trane, erano centrati su Ornette Coleman.
Ottimo il lavoro al pianoforte, spesso nervoso e contratto al punto giusto.
Rivolgendosi al pubblico Ottaviano ha anche espresso un suo punto di vista assolutamente condivisibile sul significato del Jazz che è Amore eterno, gioia, ma che deve essere anche sempre lotta, sacrificio e linguaggio di libertà. Il jazz non deve mai tradire la propria funzione di testimonianza e rivendicazione dei diritti, in solidarietà e uguaglianza. E’ una musica che non ha età perché è stata pensata per il futuro.
Alle ballad melanconiche la band di Ottaviano ha saputo contrapporre anche momenti di estrema aggressività, urbani e drammatici, molto ispirati fino a quella famosa “Sheets of Sound” che solo a pochi riesce.
Al contempo Colonna faceva letteralmente urlare il proprio strumento, in un interplay davvero spettacolare.
Intanto, irresistibile al guinzaglio, tra il pubblico, un Jack Russel che aveva fiutato una cagnetta, sprigionava tutto la propria eccitazione e irruenza; a guardarlo sembrava aizzato dalla musica e sia detto come assoluto complimento, nel mito greco solo Orfeo era capace con la propria cetra di suscitare l’estro degli animali.
Non poteva mancare un blues sornione e felino iniziato con un dialogo tra il soprano e le vibrazioni legnose del clarinetto, come due amici forse un po’ alticci che camminando un po’ sbilenchi per la città, dopo aver fatto “serata”, se ne raccontino di quelle “grosse”.
Come quella solita della ragazza sensuale che ballava e cantava alla Jessica Rabbit e tutte le altre storie da “Barfly”, a cui si può credere o meno, tanto quando la sbornia è passata nessuno se le ricorda più.
Ottaviano si esibisce anche in uno scat gutturale alla Satchmo molto appropriato, spiritoso e ironico. A suo merito anche l’aver lasciato il giusto spazio ai propri “partners in crime” senza mai prevaricarli con l’esibizionismo narcisistico come purtroppo fanno in tanti.
Anche la batteria ha il proprio momento consueto per un assolo finale trascinante prima di un bis dalle suggestioni turchesche in cui la ritmica è una marcia e i fiati richiamano i suoni, le spezie e i colori delle misteriose città del Medio Oriente. E’ una carovana nel deserto che si muove lenta verso l’orizzonte fino a scomparire. Applausi!
GreenTea Infusion, Viva Cuba! Franco Fabris (Fender Rhodes, synth), Gianni Iardino (alto& soprano sax, flauto traverso, synth) Maurizio Fabris (percussioni, voce) Pietro Liut (basso)
“Viva Cuba! Vuole essere un segnale di profonda disapprovazione verso ogni violazione del diritto di nascere e vivere liberi. La libertà è vita ed ogni volontà che piega la sua naturale propensione al bene incute sofferenza tra le genti”.
E’ stato un concerto davvero piacevole quello del quartetto dei fratelli Fabris che prende il tempo dalle corde del basso del giovane Pietro Liut e si avvale delle ottime composizioni e interpretazioni del polistrumentista Gianni Iardino.
Uno dei luoghi per la musica che il festival ha contribuito a riscoprire già in una precedente edizione è il parco Brun al di fuori del centro storico, poco più che un fazzoletto di verde in mezzo al traffico e ai palazzi, attrezzato con giochi per i piccoli e un chiosco per tutti, il famoso Giangio Bar noto agli udinesi per le sue birrette e i suoi spritz che fanno da robusto aperitivo alle carni alla brace che sanno ammaliare con i propri odori.
Lo scenario estivo è quello di miriadi di bambini di tutte le età e colori che giocano, saltano e si divertono insieme, mentre i genitori e gli altri adulti chiacchierano tra un “bibitone” e un altro seduti sulle panche del chiosco all’ombra dei grandi alberi del piccolo parco. Una specie di paradiso urbano, un’oasi aperta a tutti.
In questo idilliaco luogo godere della musica è facile e davvero appagante soprattutto se i tanti colori del contesto trovano la loro corrispondenza nelle variegate melodie dei Green Tea inFusion che dipingono le emozioni a colpi di note.
Non è un caso se la grafica dei loro cd prende spunto dai colorati disegni di Stella, la piccola nipotina dei Fabris. Nelle ingenue opere della pittrice in erba c’è tutta la gioia, la freschezza e l’armonia che i quattro amici trasmettono attraverso la loro musica.
Per questo è sembrato veramente indovinato aver coinvolto nell’esibizione anche il pittore Massimiliano Gosparino che, su una grande tela, a ritmo di musica, ha improvvisato un enigmatico dipinto “Live Painting Animal Tatoo”.
Mentre i musicisti accordavano i loro strumenti, provando i volumi e testando l’amplificazione, l’artista preparava i colori. É una similitudine immediata, è un accostamento perfino troppo facile, è sempre e solo questione di sensibilità, luce e capacità di progettare una tessitura nella quale le diverse vibrazioni trovino consonanza.
La Fusion del gruppo non è mai cervellotica ed eccessiva, percorre le strade del latin jazz con piacevoli venature prog in perfetto equilibrio tra radici jazz e blues e ritmi caraibici che affiorano con evidenza soprattutto nell’ultimo lavoro dedicato a Cuba.
Il concerto è iniziato con le suggestioni del Fender Rhodes di Franco Fabris, echi di sitar e percussioni latine e orientaleggianti. In un orizzonte progressivo, il sax alto tracciava i propri sentieri nell’immaginazione così come il pittore dipingeva i primi colori sulla tela, giallo ocra perfettamente in linea con le note così come il synt di Franco Fabris strideva, vibrava in una calda emozione.
La tavolozza di colori del concerto, tra pittura e musica, corrispondeva anche ai colori che distinguono le persone che gioiosamente frequentano il parco, un meraviglioso compendio d’umanità che diventa davvero comunità nel proprio condividere la felicità dei bimbi che giocano.
Intanto sulla tela i colori e le linee si componevano in una scena di animali, foresta sonora che evocava la presenza degli spiriti ancestrali.
Il richiamo seguiva anche lo “slappare” del basso di Liut, ammorbidito dal sax o dal flauto traverso di Iardino, in un sovrapporsi di immagine-suono-figura da jungla urbana. Il sound complessivo era piacevole e fresco perfetto per una serata estiva.
Tra i brani che si sono susseguiti anche la splendida “Hokusai Waves”, inclusa nel primo lavoro della band, ispirata alla “Grande onda” capolavoro della pittura giapponese, sempre da scoprire e reinventare come tutte le icone della nostra contemporaneità che non smettono mai di interrogarci e ispirarci.
Sulla tela finalmente appariva distintamente un ippopotamo con in groppa tre babbuini che innalzavano un vessillo “Animal Tatoo” e che con pennelli e colori avevano scritto sulla pancia dell’animale che cavalcavano il motto riferibile a Nietzsche: “Werde der du bist” (Diventa ciò che sei). Non è il luogo adatto per addentrarci nei simboli e nelle iperboli cui l’artista alludeva, a volte è più salutare non farsi troppe domande, comunque l’effetto dell’immagine è stato garantito.
Con “Bossa de la Repubblica” la band ha voluto giustamente omaggiare Max De Tomassi, amico del festival la cui grande passione per il Brasile è stata sottolineata dal flauto traverso che richiamava i temi tropicali e languidi della Bossa Nova.
La musica dei GeenTea InFusion diverte, intrattiene, allieta ed ha un certo gusto per l’ironia nel quale il termine Bossa si confonde con quello di Borsa, così un brano dal titolo “Bossa dell’acqua calda” è stato dedicato alla zia Lorenzina di 97 anni che nelle serate invernali ne fa probabilmente largo uso.
Molti altri brani sono seguiti e, prima della grande cavalcata finale di Let’s Dance con le improvvisazioni e gli assolo dei vari componenti del gruppo, non ultimo il notevole percussionista Maurizio Fabris, si è voluto giustamente rimarcare che la musica di “Viva Cuba!” è un sentito tributo al popolo dell’isola caraibica che da decenni soffre per un ingiustificato, crudele embargo voluto dalla potenza imperialista americana che non vuole e non può accettare le conquiste civili e sociali che un popolo intero si è guadagnato con la lotta e il sacrificio di generazioni.
Hasta la Victoria Siempre!
© Flaviano Bosco – instArt 2023
foto Green Tea InFusion di Angelo Salvin