Per i fan di stretta osservanza, è stato un concerto imperdibile di una band che ha lasciato un segno importante nella storia del rock progressivo degli ultimi tre decenni, qualunque cosa questo voglia dire.

I Porcupine tree di Steven Wilson e Richard Barbieri hanno dimostrato di avere ancora qualcosa da dire musicalmente come band, anche se l’ultimo decennio non li ha di certo visti tra i protagonisti. L’interesse anche commerciale nei loro confronti si è riacceso lo scorso anno con la pubblicazione dell’undicesimo, notevole album in studio “Closure/Continuation” che ha seguito il precedente “The Incident” (2009) dopo ben tredici anni.

La villa palladiana della famiglia patrizia veneziana Contarini a Piazzola sul Brenta si erge maestosa sui resti di un antico castello medievale degli antichi feudatari Dente.

Nel XIX sec. i Camerini l’acquisirono ristrutturandola magnificamente, bonificando l’intero territorio circostante, creando innovative infrastrutture che lo trasformarono in uno dei primi distretti industriali del nord Italia.

L’enorme spazio contenuto dalla faraonica barchessa della villa ospita, da molti anni, splendidi concerti impreziositi dall’incredibile architettura senza pari. L’ultima domenica del mese è per Piazzola sul Brenta un appuntamento fisso con il mercatino dell’usato che di piccolo non ha proprio niente, ci si può trovare davvero di tutto e per tutte le tasche; dall’oggetto più antico, esclusivo e prezioso alle cianfrusaglie da pochi centesimi.

Centinaia e centinaia di stand attirano da tutto il nord Italia migliaia di persone in cerca dell’affare tanto sognato. La cittadina ne è invasa, ma l’organizzazione è talmente efficiente che l’affollatissima manifestazione, lo scorso weekend, ha lasciato repentinamente spazio, in perfetto orario e senza alcuna confusione, agli spettatori del concerto. Tutto calcolato, diretto e predisposto nel migliore dei modi come un’orchestra sinfonica tra staff, volontari e forze dell’ordine in perfetta sinergia.

Non poteva esserci luogo migliore per una band leggendaria come i Porcupine Tree che da sempre traguarda, con la propria arte, passato e futuro del rock progressivo, “riciclando” vecchie melodie in nuovi prodigi della musica in senso assoluto.

E’ proprio dalle nebbie del mito che viene la band di Steven Wilson, deus ex machina polistrumentista e autentico genio della musica contemporanea.

Sono passati ormai trent’anni da quando tra gli appassionati si sussurrava il nome dell’albero dei porcospini, un gruppo talmente di nicchia che nessuno ricordava nemmeno d’averlo visto o ascoltato; si pensava che se tutti ne parlavano dovevano pur esistere, non potevano esserseli inventati di sana pianta. E, invece, era proprio così.

L’arcano fu rivelato dagli stessi protagonisti di una burla mediatica di sapore “situazionista”: il musicista Malcom Stocks e lo stesso Wilson avevano saputo creare moltissimo “hipe” attorno ad una fantomatica band psichedelica degli anni ‘60 che esisteva solo nella loro fantasia.

Appassionati del genere e critici blasonati c’erano caduti con tutte le scarpe. Restarono ancora più increduli quando la musica del fantomatico gruppo cominciò ad essere messa in rotazione nelle radio e ad ottenere vari consensi tra il pubblico. Wilson spacciandosi per un’intera band, suonava tutti gli strumenti, cantava, assemblava, sovra-incideva, confezionava e auto-promuoveva una musica di chiara ispirazione “cosmica”, puro “do it yourself” in chiave prog.

Porcupine Tree – Photography by ALEX LAKE insta @twoshortdays WWW.TWOSHORTDAYS.COM

In oltre trent’anni di carriera il gruppo si è prima agglutinato attorno ad altri elementi con sempre Wilson al centro, attirando nella sua orbita più ristretta il grandissimo tastierista Richard Barbieri (ex Japan con David Sylvian) e l’insuperabile Gavin Harrison alla batteria e poi un buon numero di turnisti di razza come il bassista Nate Navarro e il chitarrista Randy McStine.

Con alterne fortune, con alcuni album di grande ispirazione e altri decisamente dimenticabili, hanno di certo tracciato un solco della musica contribuendo negli anni ‘90 ad un rilancio del rock progressivo in senso tradizionale, alla sua innovazione e inevitabile nuovo declino o auspicabile trasformazione. In realtà, a ben guardare, Wilson e soci non sono mai stati davvero annoverati nell’avanguardia degli innovatori, hanno sempre approfittato in modo molto intelligente delle innovazioni degli altri e se all’inizio si trattava di riprendere il percorso interrotto da Pink Floyd, Genesis, Yes ed altri, dopo si trattò di affiancare nella loro evoluzione King Crimson, Soundgarden, Tool, Meshuggah.

Niente di male, ci vuole un gran talento e una gran dedizione anche per arrivare sempre secondi e per continuare a “sfangarla” rimanendo sempre a galla anche senza far dischi per quasi un decennio proprio com’è successo con l’ultimo bellissimo Closure/Continuation. Il gioco però dopo tanti anni, comincia a mostrare la corda e Wilson lo ha capito da tempo, molto meglio dei propri fan.

Proprio per questo nell’ultima decade, pur senza aver mai ufficialmente sciolto la band, si è dedicato principalmente alla propria carriera di solista che gli permette maggiore libertà in quanto a scelte stilistiche e musicali.

I Porcupine Tree gli hanno dato la fama e anche una discreta liquidità, ma sono un progetto che musicalmente ormai non ha più moltissimo da dire. Il gruppo suona dell’ottima musica, con una grandissima energia ripercorrendo a ritroso le proprie impronte su un sentiero che altri hanno tracciato. Lo show è di certo gradevole, pieno di luci e con accattivanti immagini di frattali e desolati paesaggi su mega-schermo, come ormai di prammatica anche nelle esibizioni del Piccolo Coro dell’Antoniano, ma niente di assolutamente trascendentale.

Come recita un antico adagio: “Ogni bel gioco dura poco” e, se non vogliono diventare la migliore cover band di se stessi, è meglio, che come annunciato dallo stesso leader, l’avventura si fermi dopo quest’ultimo tour.

Wilson nonostante una lunga carriera, qualche migliaio di concerti e una fama planetaria non riesce a scrollarsi di dosso quell’aria un po’ sbarazzina e antipatica da primo della classe, secchione e nerd; quello in prima fila sempre con la mano alzata che ha un sacco di domande da fare alla prof. d’arte, quesiti che tu, in ultimo banco sempre mezzo addormentato, non riesci nemmeno a capire.

Una metafora cinematografica ci permette di tentare di comprendere la complessa creatività di questo eterno enfant prodige. Proprio negli anni in cui ai giovanissimi Stocks e Wilson venne l’idea in forma di burla mediatica dei Porcupine Tree, furoreggiava Michael J. Fox con il primo capitolo di “Back to the Future” di Zemeckis.

Tutti ricordano la sequenza diventata iconica del protagonista Marty McFly che, al ballo della scuola negli anni ‘50, suona, davanti ad un pubblico attonito, “Johnny B. Goode” che sarebbe stata composta da Chuck Berry che per avventura l’ascolta al telefono, solo tre anni dopo, in un gustoso paradosso temporale.

Wilson a volte da l’impressione di essere proprio così soprattutto nelle sue vesti di leader dei Porcupine Tree con la sua ironia tipicamente londinese e i suoni della sua band di un passato futuro che qualcun altro inventerà, in una coazione a ripetere che ricorda una delle distopie fantascientifiche che alimentano la sua stessa creatività.

Un brano dell’ultimo album, suonato anche l’altra sera, sembra poterci introdurre a questo insanabile paradosso.

Come si dice nell’Iliade (IV, 180,184) Chimera: “Era il mostro di origine divina, leone la testa, il petto capra, e drago la coda e dalla bocca orrende vampe vomitava fuoco e nondimeno col favore degli dei l’eroe la spense”. “Chimera’s Wreck” sembra dirci moltissimo di quello che Wilson di recente sta cercando di esprimere con la sua vulcanica creatività e magmatico talento.

Tutta la canzone, con la sua energia e le sue chitarre vischiose e pesanti sembra essere una riflessione sul tempo che passa e sui propri desideri. In senso traslato la chimera cui si fa riferimento nel testo è un’idea senza fondamento, un sogno vano e irrealizzabile, una fantasticheria travestita da utopia, proprio come molte cose a cui si anela con la pura immaginazione nell’adolescenza.

Come ha scritto su Twitter a riguardo lo stesso Wilson: “La chimera in questo caso è l’illusione o la delusione per quello che ti immagini di essere nel futuro. Quello che ci siamo immaginati di volere dalla vita quando eravamo giovani probabilmente non ci avrebbe ugualmente fatti felici. Forse è meglio che non siamo diventati la persona che desideravamo essere quando eravamo ragazzi”.

E’ un discorso che il pubblico piuttosto adulto, cui la band si rivolge, comprende bene. Senza troppi rimpianti e nostalgie la musica dei Porcupine Tree ci aiuta a riflettere sul percorso fatto nell’esperienza e nell’esistenza a partire dall’inconsistente illusorietà dei sogni e dei progetti campati in aria fino all’atterraggio, non sempre delicato, che il nostro volare nel cielo della vita ci riserva.

L’altra sera, un crescendo d’archi, messo in loop via via più rumoroso e ossessivo fino a divenire disturbante, si sovrapponeva al vociare dei cinquemila che affollavano l’anfiteatro Camerini e li avvisava che l’esibizione stava per cominciare (“Even Less/stupid dream intro”).

E’ stata davvero un’ottima introduzione al concerto. Alle 21,10 i musicisti sono saliti sul palcoscenico per partire subito molto sostenuti con “Blackest Eyes”, due chitarre, una batteria e le tastiere viaggiavano velocità di crociera, spinti da un drumming davvero impressionante e ipertecnico.

Subito però emergeva qualcosa di assolutamente “stonato”: le parti di basso non erano suonate dal vivo da Nate Navarro, ma registrate. Prima di eseguire il brano successivo, “Harridan” dall’ultimo album Closure/Continuation, Wilson ha spiegato che il bassista aveva avuto un’emergenza familiare e se n’era tornato a casa lasciando al resto della band il suo posto vuoto. Wilson, con humor anglosassone, ha parlato di “bassista invisibile”, ma la scelta di sostituirlo con delle registrazioni ha lasciato più d’uno spettatore davvero interdetto.

Certo trovare un sostituto all’ultimo momento non è facile, ma è di certo più onesto che suonare davanti al proprio pubblico su delle basi pre-registrate e sincronizzate; in ogni caso ai fan più ortodossi la situazione di ripiego non ha creato il minimo turbamento e perciò ancora una volta Wilson ha avuto ragione.

Come ha ricordato lui stesso durante il concerto prima di eseguirla nuovamente, 20 anni fa con spirito preveggente, compose: “The Sound of Muzak” nella quale esprimeva tutto il suo disgusto per la musica come prodotto industriale nel suo ciclo di produzione-riproduzione-consumo. Oggi la musica liquida, completamente smaterializzata e digitale ha peggiorato di gran lunga la situazione, ci sono perfino delle persone che si inventano delle band suonando tutto da soli nel salotto di casa propria e gruppi famosi che sostituiscono i propri musicisti con delle registrazioni.

Now the sound of music comes in silver pills, engineered to suit you, building cheaper thrills. The music of rebellion makes you want to rage but it’s made by millionaires…One of the wonders of the world is going down. It’s going down I know. It’s one of the blounders of the world that no-one cares, no-one cares enough.”

L’altra sera nella splendida cornice del mercatino dell’usato di Piazzola sul Brenta, tra tanti meravigliosi, preziosissimi oggetti di un tempo che fu, c’erano anche i Porcupine tree in sontuosa confezione e a prezzo di realizzo.

© Flaviano Bosco – instArt 2023