Con la sua 25° edizione la rassegna udinese del cinema asiatico si è presa una larga rivincita sugli “anni del castigo” epidemico che ne avevano imbrigliato le energie. Le tantissime presenze hanno mandato il botteghino sold out per la maggior parte degli spettacoli tanto che già alle proiezioni mattutine era difficile trovare un posto libero perfino con l’accredito stampa se non si prenotava con largo anticipo.

Questo successo è dovuto di certo alla qualità popolare delle proposte generalmente presentate, ma soprattutto grazie ad un rinnovato entusiasmo da parte degli appassionati e dei neofiti che sono tornati in massa ad affollare le sale. Proprio durante gli anni del Covid si è generata una nuova voglia di fare esperienza in sala da parte di una generazione di Otaku cresciuta a pane e manga solamente sulle piattaforme e che ora ha l’età giusta per seguire i festival e per andarsene finalmente al cinema anche a dispetto dei propri genitori che ormai non si schiodano più dai loro comodissimi divani sfoderabili.

Cominciamo una serie di recensioni che si soffermeranno su una teoria del tutto arbitraria di film che comunque rappresentano una parte importante di quelli presentati durante la rassegna. In questo caso, si tratta di opere di registe che si stanno facendo strada nel panorama del cinema asiatico generalmente piuttosto maschilista per tradizione. Dedicheremo poi anche una qualche attenzione ai tanti eventi collaterali che hanno interessato nuovamente tutta la città di Udine facendo soffiare ancora quella brezza che viene dall’Oriente e ci parla “dell’esistenza di mondi lontanissimi…di viaggiatori anomali in territori mistici…di più”.

A Light never goes out di Anastasia Tsang, HKG 2022, 103’. Celebrativo, nostalgico e in definitiva poco realistico se non addirittura fasullo nella rappresentazione del verosimile, ma nonostante tutto efficace e godibile. Il film celebra e ricorda la grande “epopea” dei piegatori di tubi al neon nella storia dell’ex colonia britannica di Hong Kong. Le insegne al neon sono state a lungo il simbolo stesso delle seduzioni metropolitane dal deserto del Nevada con la tentacolare Las Vegas alle misteriose e trasgressive notti asiatiche da Shanghai a Bangkok. A livello cinematografico la magia di luci al neon comincia con le avanguardie del secolo ed è stata determinante per il nostro e altrui immaginario, basti ricordare le luci della Ville lumiere nei film delle Avanguardie (Entre-acte, Ballet mécanique ecc.) Certo Hong Kong non è Parigi ma anche le sue luci hanno fatto la storia del cinema, e ancora hanno un certo fascino anche se obbligatoriamente sostituite dai led.

Il futuro ce lo immaginiamo ancora scuro e notturno, in un’affollata strada del centro di una megalopoli asiatica sotto le luci al neon come in Blade Runner. Il film della Tsang non è certo di quel livello, le sue pretese sono molto più modeste, tutto gira attorno al rimpianto per i bei tempi andati della Hong Kong che non c’è più e che sta diventando sempre più anonima e cupa.

Alcune sequenze però durante i titoli di coda valgono tutto il film; si vedono le immagini dei veri artigiani del neon che non ci sono più e le loro vecchie insegne, da quelle più piccole sui negozi del centro, a quelle immense anche da 300 metri quadri e più sulla sommità dei grattaceli della città.

Interessante anche la documentaristica rappresentazione del duro lavoro di laboratorio necessario per realizzare quelle che possono essere considerate vere e proprie opere d’arte contemporanea che, decontestualizzate dal loro significato strettamente commerciale, spesso troviamo nei più prestigiosi musei del mondo grazie ad artisti come Dan Flavin, Martin Creed, Joseph Kosuth, Flavio Favelli ecc.

Plan 75 di Chie Hayakawa, Japan, 2022, 80’ Dopo i titoli di coda si rimane a lungo perplessi e non si riesce davvero a capire se sia trattato di un lungometraggio di finzione o di un documentario sulla realtà giapponese contemporanea, tanto ben giocato è l’intreccio e la sua narrazione cinematografica alla David Cronenberg/James Ballard.

Le prime immagini raccontano o meglio “sbirciano” una drammatica vicenda familiare del tutto fuori scena e fuori fuoco. Un giovane armato di doppietta si aggira per casa, si presume dopo aver sparato alla vecchia nonna paralitica, lo intuiamo dopo aver visto una carrozzella rovesciata e una chiazza di sangue nella luce di una porta. Anche il ragazzo, infine, si spara un colpo di fucile ma solo dopo aver redatto una lettera farneticante che in sostanza dice che uccidere i vecchi vuol dire fare del bene della patria nipponica e liberare i giovani da un fardello che impedisce loro il futuro. Non c’è male come prologo.

Dopo un completo cambio scena, vediamo due vecchierelle che solerti lavorano come cameriere al piano in un anonimo hotel. Ben presto veniamo a sapere di trovarci in Giappone in un tempo non precisato che sembra il presente. Il governo per risolvere il problema demografico ha scelto le vie di fatto basandosi sulla grande tradizione “suicidaria” del Sol Levante.

Il problema da risolvere è che i giapponesi fanno pochi figli e per questo la popolazione invecchia esponenzialmente. La soluzione governativa è che gli anziani, superati i 75 anni, si immolino accettando volontariamente di seguire un programma di eutanasia di stato gratuita e anzi retribuita.

Una grande agenzia di pompe funebri governativa si occupa in modo gratuito, professionale ed efficace di tutto, basta solo affidarvisi con serenità e senza tante storie, così da evitare fastidi ai figli e ai nipoti e magari lasciare loro un gruzzoletto in memoria, ci sono perfino sconti per esequie e cremazioni collettive.

Le riprese documentaristiche, la recitazione realista ed anche una lentezza narrativa esasperante contribuiscono a rendere il film inquietante, scuro e cupo come solo la vita sa essere di tanto in tanto. Si segue la storia di una vecchina che “in hora mortis” fugge rocambolescamente dal mattatoio di stato, poi di un agente dell’agenzia che trafuga il cadavere di suo zio e, infine, di un’immigrata filippina addetta ai cadaveri dei vecchi “suicidati”. Una realtà atroce che non appartiene per nulla ad un futuro distopico; chi si ricorda le “stanze per gli abbracci” di plastica nelle RSA durante l’epidemia? E i tanti anziani che vi erano sequestrati che sono poi morti in solitudine e cremati in fretta e furia?

She is me, I am her di Nakamura Mayu, JPN 2022, 69’. Un’opera in quattro quadri sul filo del melodramma, tutta in punta di penna e di grande delicatezza, con una maiuscola interpretazione attoriale della protagonista nei panni di più personaggi. La regista dimostra una sensibilità del tutto particolare per la rappresentazione della solitudine interiore senza che il suo sguardo sembri troppo pesante e doloroso. Le storie raccontano piccoli e grandi drammi nel Giappone ai tempi del covid.

Nel primo quadro (Among of Us) alcuni amici che non si vedono fisicamente dai tempi del college, vent’anni prima, fanno una bevuta in chat a distanza anche se ci sorprendiamo a scoprirlo solo alla fine, quando li vediamo su tre panchine, in tre parchi diversi a bere birra in lattina, sotto la medesima luna). I personaggi sono attori ed ex che chiacchierano e ripensano ai bei tempi andati che, mano a mano che la conversazione si approfondisce, non sembrano essere stati in realtà così luminosi. Sono quarantenni pieni di rimpianti e con scelte esistenziali subite più che vissute, ma che fanno finta di niente, illudendosi di dimenticare.

Ciò che li ha davvero tenuti uniti in tutti gli anni passati è il rapporto particolare che ognuno intratteneva con Satoyama, una fascinosa e misteriosa loro compagna di liceo che ora è morta. Splendido il lavoro della regista con i volti (piano, contropiano, primissimo, tre quarti sagittale ecc.) A volte può sembrare un mero esercizio di stile, ma è una profonda riflessione sulle relazioni, sull’assenza e sulla distanza. Quanto di più lontano artisticamente si può pensare dai sempre squallidi “Compagni di scuola” del cinema italiano che se assomigliano a qualche quadrupede non sono di certo più “Vitelloni” ma, senza ombra di dubbio “cani” con tutto il rispetto possibile per gli animali.

Il secondo episodio (Qualcuno vegli su di me) Ragiona in modo non banale sul rapporto tra uno stalker e la sua vittima, concludendo che le dinamiche possono essere ben diverse da quelle che appaiono a prima vista. Una ragazza, disperatamente sola, costringe un biker perle consegne a domicilio, altrettanto solo e male in arnese, a mangiare davanti a lei dopo aver ordinato ogni sorta di manicaretti deliziosi e costosi.

E’ forse affetta da una sorta di strana perversione alimentare che la costringe a non toccare cibo, ma solo a godere nel vederlo ingurgitare. “Mi fa sentire viva” dice ad un certo punto, rivelando che da quando il fidanzato l’ha lasciata non riesce più a mangiare da sola. Con l’andare dei pasti che lei continua ad ordinare e a fargli consumare in modo compulsivo, si crea una sorta di intimità fino a quando lei non scopre che lui la teneva sotto controllo da tempo scattandole moltissime foto a sua insaputa senza avere il coraggio di approcciarla; questo la turba profondamente e la fa sentire minacciata e dopo averlo “usato” finisce per cacciarlo anche se la sequenza finale lascia spazio ad una riconciliazione tra le due bizzarre solitudini.

Il terzo episodio (Signora fantasma) è molto letterario e nell’economia del film forse il più classico, ma non per questo scontato o banale. In una strada della moderna città, su una panchina due sconosciute chiacchierano delle loro gioie ma soprattutto dei loro tanti dolori. La più anziana delle due dice di quando faceva l’attrice teatrale prima di ridursi a fare la “barbona” per strada a causa di vari dispiaceri.

Tra l’altro si paragona a Nina de “Il Gabbiano” di Checov che rinuncia all’amore per fare l’attrice. Come l’eroina russa dice che non sarà mai il Gabbiano di nessuno. La donna più giovane si riconosce in quei ricordi, anche lei più di recente, ha coltivato il sogno di fare l’attrice ma è finita a battere il marciapiede per sopravvivere; la sua psiche ne ha purtroppo risentito e ossessivamente sogna di essere assassinata da uno sconosciuto.

Alcuni giorni dopo la giovane ripassa nello stesso luogo, ma sulla panchina trova solo dei fiori che ricordano la tragedia appena occorsa. La donna anziana che viveva per strada era stata pugnalata da un pazzo che riteneva indecorosa la sua povertà. In seguito, la giovane, di tanto in tanto, crede di scorgerne il fantasma tra la gente.

“Ingannami dolcemente” chiude la breve serie di struggenti racconti: con la scusa del Covid , un truffatore, alle prime armi, estorce denaro ai parenti dei ricoverati che non potendo assistere i loro congiunti per le normative restrittive antiepidemiche, s’illudono di rendere le loro sofferenze più lievi corrompendo il sedicente funzionario.

In realtà, lui ha il cuore molto tenero e si fa redimere ed ammansire da una dolcissima signora non vedente cui aveva fatto credere che l’anziana madre fosse in fin di vita. Lei capisce immediatamente che si tratta di una truffa, ma preferisce il rapporto con il bieco individuo alla propria enorme solitudine aggravata dalla cecità.

La regista Nakamura sa commuovere e conquistare senza essere mai troppo sdolcinata o zuccherosa con un’attenzione delicata ai personaggi e agli ambienti davvero impagabile.

L’attrice Nahana che interpreta magistralmente quattro diversi personaggi, è stata una delle stelle più luminose di questo FEFF 2023.

(Continua)

© Flaviano Bosco – instArt 2023