Ligugnana (San Vito al Tagliamento, Pordenone), 04/03/2023 – Estensioni Jazz Club Diffuso 2023 – Anteprima San Vito Jazz 2023 – FAWDA – Fabrizio Puglisi, Danilo Mineo, Reda Zine e Brothermartino – Foto Luca A. d’Agostino/Phocus Agency © 2023

San Vito Jazz edizione 2023 ha cominciato a mostrare le sue consuete meraviglie in musica con un’anteprima davvero succulenta in collaborazione con Estensioni Jazz club diffuso, un’altra delle realtà pulsanti della musica del nostro territorio.

Fawda: Réda Zine (Voce, Guembri) Fabrizio Puglisi (Tastiere, Fender Rhodes, Synth) Danilo Mineo (Percussioni, effetti) Brothermartino (Drum machine, flauto, sax) Special Guest Indofunk Satish (slide trumpet)

Sono un ensemble italo marocchino la cui musica percorre il confine che non separa ma congiunge l’antica tradizione della musica Gnawa degli antichi schiavi del Maghreb al jazz contemporaneo velato di elettronica. Ritmi ipnotici, generati dagli strumenti tradizionali per ingenerare la trance si accompagnano così perfettamente con la drum machine, i campionamenti e i synth. Sulla carta si presenta come una delle tante esperienze della world music in jazz ma basta sentirli dal vivo o appoggiare la puntina sui loro solchi per comprendere immediatamente che i quattro sanno trasportarci in una dimensione del tutto originale e affascinante.

Da non trascurare per niente anche il loro impegno sociale e politico; attraverso la loro musica infatti rivendicano i diritti del continente che il cuore di tenebra dell’Occidente ha saputo violare in ogni modo e continua a fare. Nel disco e live, per esempio, cantano una metafora relativa alla regina di Saba che anticamente aveva risalito trionfalmente il corso del Nilo per portare i suoi omaggi al re dei re Salomone, nella loro metafora oggi Saba l’abissina è sempre meravigliosa ma è una delle tante profughe che attraverso il deserto cercano di raggiungere una speranza, spesso trovando solamente barriere e ostilità.

Flavio Massarutto, giornalista e patron di San Vito Jazz e Luca A. d’Agostino, artista della macchina fotografica e direttore artistico di Estensioni, sono due “ragazzi selvaggi” della musica. C’è più attitudine jazz in loro due che in tutti gli apparati istituzionali del nostro sfortunato paese. La loro sinergia è perfettamente riuscita portando la musica più raffinata in un luogo insolito come l’ARCI CRAL di Ligugnana di San Vito al Tagliamento (PN), il resto lo hanno fatto i musicisti e il calore del pubblico.

Ligugnana (San Vito al Tagliamento, Pordenone), 04/03/2023 – Estensioni Jazz Club Diffuso 2023 – Anteprima San Vito Jazz 2023 – FAWDA – Fabrizio Puglisi, Danilo Mineo, Reda Zine e Brothermartino – Foto Luca A. d’Agostino/Phocus Agency © 2023

Fawda percorre miracolosamente una strada già tracciata molti anni fa con sonorità che hanno innervato la scena musicale europea fin dai primi anni ‘60 quando William Burroughs e Brion Gysing, di stanza a Tangeri, facevano scoprire le seduzioni del kif marocchino alla meglio gioventù del rock e dell’avanguardia musicale. Da Brian Jones a Jimi Hendrix, molti hanno tratto ispirazioni da quelle notti marocchine come avevano già fatto i boppers qualche anno prima anche solo vagheggiando nelle loro composizioni i ritmi delle notti maghrebine (A night in Tunisia).

La band riconosce le proprie radici nell’Africa nera sub sahariana, e più precisamente in una comunità di ex schiavi Gnawa. “Abou maye” il titolo del loro ultimo lavoro, si richiama ad uno degli spiriti che presiedono ai culti di possessione, è una delle tante divinità della tradizione preislamica Gnawa e la sua particolarità è di proteggere i musicisti viaggiatori.

E’ proprio in questa identità in transito che si riconoscono i membri della band, figli di tutti i sud del mondo, le loro sonorità sono il frutto di appunti in musica che insieme costruiscono un ritmato mosaico delle culture del Mediterraneo che traguardano con quelle d’oltreoceano. Gli strumenti tradizionali come il Guembri, cordofono d’antica fattura che il vocalist pizzica, si sposano perfettamente con la drum machine e i synth; il flauto traverso disegna i percorsi che la danza ipnotica delle percussioni non cessa di percorrere. Dentro il sound dell’ensemble non è difficile avvertire l’esperienza dell’elettronica più sofisticata e clubbing unita a sciamaniche evocazioni afrofuturistiche.

Per la serata si è unito ai quattro il trombettista Indofunk Satish che sfoggiava uno strumento a campana leggermente incurvata ed effettata dai suoni acidi che splendevano nell’ombra del locale insieme a quelli del flauto traverso e delle tastiere dalle suggestioni rigorosamente vintage e psichedeliche.

I Fawda scrivono tra le note di copertina del loro splendido ultimo album:

“Dopo la realizzazione del nostro primo album “Road to Essouira”, abbiamo tolto la parola “Trio” dal nostro nome per lasciare semplicemente “Fawda”. Il nostro sentiero ci ha portati ancora attraverso il cimitero che è diventato il Mediterraneo, per raggiungere il sud e incontrare le tradizioni dei guaritori Zar e Rango dell’Egitto e del Sudan, per continuare poi ancora verso sud est finché non abbiamo raggiunto Addis Ababa. Li incontrammo e suonammo con musicisti etiopici con i quali avevamo già collaborato in Italia durante alcuni loro concerti. Attraverso questi viaggi e il nostro lavoro di studio, il punto focale, sopratutto del secondo lavoro, è stata l’infinita e irrisolta questione dell’eredità coloniale occidentale, nel nostro caso italiana, della Libia e dell’Etopia. Abbiamo sperato nella realizzazione di questo lavoro un paio d’anni fa dopo i nostri viaggi nell’Africa orientale anche se abbiamo scritto la maggior parte dei brani dopo il nostro ritorno.” Alcuni dei brani sono cantati in Darija, il dialetto colloquiale arabo del Maghreb e tutti risentono di un grande interesse per la musica di Sun Ra i cui lavori continuano ad essere presenti sulla scena della musica contemporanea non perdendo mai di attualità e continuando ad essere la musica del futuro perché “Space is the Place”.

La dimensione del piccolo club al quale con un po’ di fantasia può essere paragonata la splendida location dell’Arci con birre spillate a volontà e gin tonic veraci è stata quella ideale per immergersi nei ritmi ipnotici e tribali della catena dell’Atlante tra seduzioni berbere, in atmosfere translucide e sudate che s’incontravano perfettamente con i suoni liquidi e valvolari, sprigionando magie di alchimie speziate mescolate alle chiacchiere degli avventori il cui livello di attenzione alla musica era inversamente proporzionale alla quantità di superalcolici che alcuni continuavano ad ingollare e andava bene così. In casi come questi l’alcool è parte della liturgia, è sudore del sole, lacrime della divinità, è evocazione del dio dell’ebrezza che presiede ad ogni libagione soprattutto se in musica.

Le atmosfere più sofisticate e lisergiche dei Fawda con l’aggiunta della tromba acida finivano per ricordare quelle dello sciamano elettrico Miles Davis sul finire degli anni sessanta, quando per la prima volta il suo strumento si avvalse dell’elettronica per esplorare nuovi mondi della percezione che ancora attendono di essere completamente “cartografati” e scritti sul pentagramma.

Il piccolo locale di Ligugnana è stato, per poco più di 90 minuti, trasformato da punto di longitudine qualunque sulla carta topografica del niente, grazie alla musica dei cinque “cosmonauti” delle note, in baricentro e punto di fuga di traiettorie in grado di abbracciare mondi e superare confini. Non poteva esserci risposta migliore a quanto di mostruoso è successo nelle ultime settimane sulle coste del nostro paese. Adesso è ancora più urgente rivendicare la fratellanza tra le genti del Mediterraneo anche attraverso la cultura e la musica con le quali è forse più facile riconoscersi come fratelli. L’Italia ha avuto enormi responsabilità nello sfruttamento del continente africano e non ha certo smesso di farlo con la sua politica commerciale di rapina che “pompa” petrolio e gas e paga con le stesse armi che uccidono il popolo derubato.

A questo proposito, durante il concerto e nell’album, si sentono alcuni dialoghi dal film “Il leone del deserto” di Mustafa Akkad (1981), una straordinaria e controversa opera sulla realtà brutale del colonialismo italiano in Africa, in particolare durante la reggenza libica, famigerata e criminale del generale Rodolfo Graziani. Vi si raccontano le vicende del leader della rivolta Omar al Mukhtar che combattè più di vent’anni da eroe contro gli invasori italiani.

Il dialogo proposto dai Fawda la dice davvero lunga sulle tremende responsabilità italiane. Dopo che la resistenza è stata piegata con la strage e i ribelli affogati nel sangue senza tener nel minimo conto i diritti umani, in un colloquio privato, il principe Amedeo d’Aosta dice al generale Graziani, noto anche spregiativamente come “il macellaio”: “Non la preoccupa Generale che resteranno testimonianze sui libri di storia, anche se a questo la stampa ufficiale dedicherà solo un misero trafiletto?”, Graziani risponde: “Così lei mi ferisce Principe, ma non importa. Un giorno in memoria di Roma per me è più importante di una generazione in memoria della Libia”.

Il principe continua: “E allora mi chiedo cosa accadrà, verremo dimenticati a Roma o ricordati in Libia?”

“Non si preoccupi Altezza la storia la scriviamo noi!”

La musica dei Fawda serve anche a ricordare che i fatti sono andati proprio così, di quegli orribili massacri nessuno si ricorda più nel nostro paese che, per di più, da anni, oltre a finanziare l’attuale guerra civile in quel paese, paga perché si mantengano nel deserto veri e propri campi di concentramento per trattenere i migranti sub sahariani.

© Flaviano Bosco – instArt 2023