Replica del 21/05/2023

Si è conclusa con una Turandot tutta in maiuscolo la stagione del Teatro lirico Giuseppe Verdi di Trieste. La scelta di mettere in fondo al cartellone un’opera d’arte così assoluta ha anche dei significati simbolici che ci permettono di introdurre questa recensione con una qualche estemporanea riflessione.

Prima di tutto però è doveroso tributare i dovuti onori a chi ha reso possibile un così pulsante finale di stagione. La soprano Kristina Kolar è stata una Turandot glaciale e perfino feroce proprio così come deve essere; Ilona Revolskaya ha regalato alla sua Liù tutta la dolcezza di cui è stata capace sostenendo un personaggio che, in questa versione dell’opera, è una coprotagonista di primissimo piano; efficacissimo Calaf interpretato da Amadi Lagha spavaldo e a volte inebetito dall’amore ma anche astuto e determinato. Grandi lodi al direttore Jordi Bernàcer e alla sua energica bacchetta. Molto convincenti sono state anche la scenografia di Paolo Vitali distopiche e retro-futuristiche, la regia di Davide Grattini Raimondi che ha saputo muovere e coordinare tutta la complessa macchina scenica senza eccessivi formalismi. Un successo pienamente meritato che il foltissimo pubblico che ha gremito il Verdi non smetteva di sottolineare con infiniti applausi.

Per alcuni melomani l’ultima opera incompiuta del Maestro di Torre del Lago è anche il definitivo tramonto del melodramma italiano che, come forma musicale, aveva fatto il proprio tempo e stava lasciando spazio alle altre, prima fra tutte la dodecafonia. Puccini ne era perfettamente consapevole e anche se era molto ironico con chi sosteneva che dopo Wagner non si poteva più parlare di musica tonale, sapeva bene che l’arte della melodia e della bell’aria apparteneva ormai ai ricordi della sua generazione.

Questo non vuol dire che non avesse più cartucce da sparare. Puccini da buon cacciatore sapeva ancora destreggiarsi benissimo sul pentagramma e sul palcoscenico, la musica di Turandot è modernissima e innovativa soprattutto per la ricerca di nuove strumentazioni e sonorità ispirate alla musica orientale che aveva già sperimentato con Madama Butterfly.

Il gusto per le “cineserie” di Puccini era di certo stato corroborato anche dall’incontro e dalla frequentazione con il barone Fassini Camossi che incontrò alla Villa Gamba di Bagni di Lucca a poca distanza da quella che il compositore si era fatto costruire sulla riva del lago di Massaciuccoli nei pressi di Viareggio per la bellezza mozzafiato del paesaggio toscano e per l’abbondanza di cacciagione che alimentava l’altra sua grande passione.

L’eccentrico nobil uomo era stato a lungo ambasciatore a Pechino; ritiratosi a vita privata, aveva arredato la magione avita con ogni sorta di oggetti orientali frutto dei suoi viaggi. Tra i tanti ninnoli, anche un prezioso carillon che regalò al compositore il quale ne trasse ben due arie della Turandot: “La sui monti nell’est” brano popolare che altri non è se non “Moli-hua” (Fiore di Gelsomino) un brano cinese della tradizione popolare e l’inno all’imperatore Altoum “Diecimila anni al nostro imperatore”. E’ scoperta recente che il famoso carillon, ora in un’importante collezione privata, nasconde una terza armonia dalla quale Puccini trasse addirittura un’aria di Madama Butterfly.

E’ bello pensare che la musica che da un secolo fa sognare le platee di tutto il mondo sia stata ispirata da uno strumento automatico che meccanicamente fa girare un cilindro chiodato che a propria volta mette in vibrazione delle lamelle d’acciaio disposte opportunamente a pettine. Le grandi polemiche anche dei nostri giorni sul senso della musica generata dalle macchine dovrebbero tacitarsi solamente tenendo in considerazione questa meravigliosa realtà. In questa prospettiva, Puccini ci sembrerà non tanto l’ultimo erede di una tradizione compositiva secolare, ma anche il primo di un modo nuovo di intendere l’ispirazione.

Anche la scelta della storia da cui trarre il libretto dimostra l’attenzione di Puccini per la contemporaneità, anche se Turandot a qualcuno potrà sembrare un fantasma del passato, i significati che portava con se simbolicamente dovevano essere chiari a chi viveva nel primo scorcio degli anni ‘20 in Europa. Gli imperatori sanguinari di certo non mancavano almeno nella memoria a breve termine: da pochi anni si era consumata una guerra che aveva dissolto gli imperi centrali e quello che restava dell’impero ottomano; i Romanov erano stati sterminati da armi che ancora fumavano; l’Italia, dopo essere stata attraversata da tumulti, stragi, pestaggi e soprusi delle squadracce fasciste, precipitava in un regime che l’avrebbe spinta verso la catastrofe.

Quindi il popolo di Pekino (vedi libretto) che soffre, le guardie che lo straziano, i nobili alle prese con i loro giochini mentre tutto intorno a loro geme, la speranza che l’Amore disinteressato e la dedizione fino al supremo dono di se possano salvare il mondo non era allora una romanticheria di un mondo passato ma un’urgenza di un presente che stava perdendo i punti di riferimento.

Così anche quello che sembra un personaggio minore, la schiava Liù, si scopre essere il baricentro attorno al quale gira tutto l’intreccio. E’ lei quella che sacrifica la propria esistenza servendo il vecchio padre cieco del principe Calaf solo perché lui una volta le ha sorriso; è lei che sopporta la tortura, le ingiurie, l’abiezione fino a togliersi la vita pur di non tradire colui che è infatuato di un’altra e non ha mai ricambiato in alcun modo il suo ardore.

Sotto le mentite spoglie della schiava Liù, il cui suicidio conclude la composizione autografa di Puccini, il compositore ha forse voluto nascondere un dolorosissimo ricordo di una tragedia che segnò profondamente gli ultimi anni della sua esistenza.

La folle gelosia della moglie di Puccini aveva condotto alla disperazione una serva che la famiglia aveva in casa fin dalla più tenera età. Doria Manfredi, cameriera di casa Puccini da sette anni, il 23 gennaio del 1909 “sciolse nell’acqua tre pastiglie di sublimato corrosivo, ingoiando poscia la pozione. Verso mezzogiorno, presa dal vomito e dagli spasmi, non potè nascondere alla madre l’atto disperato che aveva commesso spiegandolo con queste parole: -Mi sono avvelenata per le dicerie, ma sono innocente-”, come scrisse allora il Corriere della Sera. Era stata accusata e pubblicamente diffamata di essere l’amante del marito dalla moglie. Quest’ultima Elvira Bonturi Gemignani, quindici anni prima aveva lasciato il precedente marito dal quale aveva avuto due figli, perché incinta del suo giovanissimo insegnante di pianoforte, per l’appunto Giacomo Puccini. La povera Doria non aveva retto allo scandalo, ma non aveva rivelato nemmeno che il suo padrone aveva un “affaire” con sua cugina dalla quale aveva avuto anche un figlio illegittimo.

Questa tragedia unita al clima tetro di inquisizione e sospetti che pervade tutta la Turandot per alcuni potrebbe essere lo specchio dei tragici eventi storici coevi che portarono alla presa del potere di Mussolini. Anche se Puccini non fu mai apertamente un oppositore del regime, alcune sue opere sono pervase da un sentimento tragico di oppressione e tradimento.

Al teatro Verdi, l’immagine di un’enorme iride guardava tutto il teatro dal fondale del palcoscenico, sembrava l’occhio di Sauron che tutto vede e controlla nella saga del Signore degli anelli. L’immaginario di riferimento naturalmente non è lo stesso, ma è un artificio molto efficace per rappresentare un potere pervasivo e totalitario e far avvertire agli spettatori l’oppressione che serpeggia nel popolo di Pekino nella prima scena dell’opera.

Infatti, il coro che incarna il popolo in piazza era guardato anche dagli scherani del potere dall’alto delle torri.

Si annuncia la terribile legge a suon di mazzate: “La legge è questa. Turandot la pura, sposa sarà a chi, di sangue regio, spieghi i tre enigmi ch’ella proporrà. Ma chi affronta il cimento e vinto resta porga alla scure la superba testa!”

Il boia ne ha già decollati parecchi e tutto il regno è inquieto, perfino i più fidati tra le guardie reali Ping, Pong e Pang in segreto mugugnano e cercano di indirizzare la loro sovrana a più miti consigli sognando di tornare alla pace. Come canta Ping: “Ho una casa nell’Honan con il laghetto blu tutto cinto di bambù…E sto qui a dissipare la mia vita.”

Inquietante e molto cinematografico il costume scelto per le guardie, tutte in bianco con i manganelli fluorescenti tra Arancia Meccanica di Kubrick e THX 1138 di Lucas. Ancora più straniante quello che cantano: “Ungi, arrota, che la lama guizzi, sprizzi fuoco e sangue! … Con gli uncini e con i coltelli noi le vostre auguste pelli siamo pronti a ricamar!”

Sembra proprio di vedere le squadracce di neri criminali che giravano città e campagne ai tempi di Puccini alla ricerca dei cosiddetti “sovversivi” con i loro coltellacci da arditi, i loro tortori e gli imbuti per l’olio di ricino.

Fredda come una spada Turandot osservava algida e inespressiva il dolore di quei miseri mentre sullo schermo del fondale passavano immagini ossee chiaramente afferenti all’immaginario BDSM; sulla scena transenne come grate, luci al neon, teschi. Nel libretto, Turandot viene associata all’astro gelido e notturno “Perché tarda la luna? Faccia pallida mostrati in cielo! Presto vieni! Spunta, o testa mozza! Vieni, amante smunta dei morti! O esangue! O taciturna! O squallida! Come aspettano il tuo funebre lume i cimiteri! Ecco laggiù un Barlume dilaga in cielo la sua luce smorta!”

Nonostante tutto questo al principe senza nome, che noi sappiamo chiamarsi Calaf, basta uno sguardo per innamorarsi perdutamente della crudele principessa. Non teme di affrontare il tranello dei quesiti e si gioca la testa senza quasi pensarci suonando il famoso gong sulla scena per dichiarare la sua sfida “Quando rangola il gong la morte gongola”.

Nella famosa scena degli enigmi di Turandot, non serve nemmeno dirlo, Calaf trionfa sulla terribile principessa che, sconvolta da tanto ardire, naturalmente non vuole adempiere alla promessa di diventare la sposa del principe vincitore, il quale, a propria volta, per sottometterla definitivamente le propone una sfida: se riuscirà a scoprire in una notte il suo vero nome lui rinuncerà al privilegio acquisito e si consegnerà al boia.

In questa scena l’ottimo costumista Danilo Coppola si è forse fatto prendere un po’ la mano tanto da abbigliare la sua Turandot come una dominatrix di qualche sito equivoco, molto efficace il fatto che fosse seguita sempre dall’anima muta della sua ava interpretata dolorosamente da una ballerina vestita di stracci.

Turandot ordina che nessuno debba dormire a Pekino fino a quando non si sarà trovato il nome dell’astutissimo straniero.

In una notte scura e nuvolosa le guardie scrutano, ispezionano con i loro neon, cercano, guardano, indagano.

Calaf canta “Nessun dorma”, l’aria che raccoglie in se molte delle energie della cultura italiana portandole ad uno dei punti più alti in assoluto della propria espressione artistica e non serve dire altro. Il lungo, commosso, convinto applauso a scena aperta del pubblico non si è fatto attendere.

Le guardie, per risolvere in altro modo la questione, propongono in cambio a Calaf due prede muliebri (prodigiosi amplessi) e poi soldi, gioielli per andarsene…fuggi lontano e noi ci salviamo, ma lui crollasse il mondo vuole Turandot.

La crudele si presenta senza corona, infine le guardie catturano la povera Liù e il vecchio che qualcuno ha visto insieme allo straniero e già si pensa alla tortura. “Abbiamo ferri per schiodargli i denti” dicono le guerre.

Liù dice di sapere il nome ma di non volerlo dire a nessun costo nemmeno sotto tortura.

Chi pose tanta forza nel tuo cuore? Le chiede Turandot e la sventurata rispose: “Principessa, l’Amore!”

Liù finisce per suicidarsi pur di non tradire il suo amato.

Ombra dolente perdona” non farci del male, Ping, Pong, Pang le rendono onore e così tutte le guardie, anche il vecchio padre di Calaf e lo spirito della povera Lo-u-ling.

Come disse Toscanini alla prima “Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto.”

Bene ha fatto il Verdi di Trieste a non eseguire i vari finali ricavati dalle 36 pagine di appunti che Puccini non fece a tempo a trasformare in partitura, anche se anche quelli fanno parte ormai della storia della musica (Alfano I e II, Maguire, Berio, Weiya). Il finale sospeso regala, se è possibile, ancora più fascino sinistro al cupo dramma che è andato dipanandosi in quel regno crudele d’oppressione dove continueranno in eterno a regnare la Speranza, il sangue e Turandot perché se “gli enigmi sono tre la morte è una!”

Fuori dal Teatro con ancora negli orecchi lo scrosciare infinito degli applausi del pubblico, mentre l’ultimo sole si buttava nel mare, aiutato da una ragazza che si faceva un selfie tenendolo in prospettiva sul palmo della mano, alcune coppie di tangueros ballavano sul Molo Bersaglieri; nello stesso momento passava una coppia in abiti africani mentre poco più in là si stava girando il video di un rapper italiano con sullo sfondo Piazza Unità d’Italia, Trieste non ha eguali ed è essa stessa uno spettacolo meraviglioso.

© Flaviano Bosco – instArt 2023