A Udine, da 26 anni, la primavera arriva solo quando si spalancano le grandi porte del Teatro Nuovo Giovanni da Udine e per la città si spargono le note e il profumo d’Oriente.
La rassegna cinematografica più importante d’Europa dedicata al cinema asiatico, da molti anni è in simbiosi con i ritmi e i tempi del capoluogo friulano che è diventato un punto d’osservazione privilegiato sullo stato dell’arte del cinema asiatico in generale. Il FEFF è il volano che permette la diffusione della cultura popolare dell’Estremo Oriente con modalità che tre decenni fa erano quasi del tutto inedite: cosplay, manga, workshop, musica, panel ecc.
Anche se molta strada si è fatta dalle edizioni pionieristiche degli inizi e ormai in tutta Italia la pop culture con gli occhi a mandorla è un onda montante che si è radicata ovunque, il festival udinese aumenta progressivamente la propria autorevolezza e importanza, potendo sfoggiare anche numeri e presenze di spettatori da capogiro e ospiti internazionali di prestigio assoluto.
Lo dimostra proprio l’ultima edizione che ha tributato il proprio massimo riconoscimento a Zhang Yimou, indiscutibilmente il più celebre regista cinese vivente.
Il festival di Udine nato dalla fantasia e dall’intraprendenza di un gruppo di semplici appassionati, giovani amici, nel corso degli anni ha saputo crescere anche grazie a momenti di approfondimento sul cinema popolare asiatico attraverso conferenze, lezioni e retrospettive proprio come quella di quest’anno dedicata al cinema del “Paese dal calmo mattino”: 50/50 Celebrating 50 Years of Korean Film Preservation.
Molti dei film anni ’50 della rassegna sono stati presentati nelle sinossi come “Neorealisti” e l’impronta che appare immediatamente allo spettatore è decisamente quella. Si tratta di un cinema che racconta la vita delle classi sociali meno abbienti o degli emarginati, la ricostruzione del paese dopo una guerra devastante, le speranze e i sogni per il futuro spesso disattese e frustrate da un mondo ingiusto e spietato.
E’ innegabile che la fonte d’ispirazione primaria fosse certo cinema italiano di Rossellini, De Sica, Germi, Visconti, quello che manca però, quasi totalmente, è un vero intento di analisi sociologica di tipo progressista, anzi quella forma cinematografica in Corea del Sud, per evidenti motivi di sudditanza culturale, fu utilizzata moralisticamente e ai fini della propaganda filoccidentale, oscurantista, censoria, conservatrice e visceralmente anticomunista. Da un punto di vista strettamente storico-cinematografico il fatto non è per nulla un difetto, ma un ulteriore conferma dell’eccezionale valore culturale di queste pellicole che ci permettono di osservare il divenire di un’operazione di omologazione culturale nel suo farsi. di seguito si potranno leggere alcune riflessioni sui principali film della rassegna.
Nakdong River (Il fiume Nakdong) di Jeon Chang-Keun, (Corea del sud, 1952, 46′)
Ogni nazionalismo che si rispetti ha un fiume che ne bagna le radici storiche e mitiche. Ogni patria s’abbevera alle sacre acque della vita: la Palestina è generata dal Giordano, la maestà di Roma dal biondo Tevere, Il danubio e il Reno sono i padri dell’Europa, il Piave è caro alla Patria italiana così come lo Scamandro rosseggia ancora del sangue degli antichi padri e quello della Somme ai fratelli d’Oltralpe.
La Corea del sud si riconosce nei 510 placidi chilometri dello scorrere del fiume Nakdong che il breve cortometraggio della rassegna ha mostrato in tutta la sua placida solennità e splendore.
La canzone patriottica che fa da colonna sonora al film, declama: “Il fiume Nakdong scorre, scorre non riposa mai. Guardate Silla e Gaya antiche civiltà nate sulle sue rive”. Il coro canta del fiume della tradizione e di una grande battaglia vinta nella guerra fratricida con gli abitanti del Nord. Le immagini paesaggistiche sono elegiache, il fluire delle acque tra valli e montagne racconta di un sentimento patrio che ha negli elementi naturali la sua forza. Si vedono sulle sue rive, ridenti ragazze che attingono l’acqua, bucolici paesini di contadini operosi, campi coltivati con geometrica perizia e dedizione.
La campana della scuola ad un certo punto richiama tutti, è un modo di comunicare che significa immediatamente: “comunità” nel vero senso della parola, l’adunanza che condivide e insieme affronta gioia e difficoltà. Nella colonna sonora si fa larghissimo uso di fiati tra i quali a farla da padroni il flauto traverso e il clarinetto. Il richiamo all’adunata annuncia che lungo il fiume sale la barca con una giovane militante patriottica che distribuisce notizie e medicine.
Nelle sequenze successive si vede tutto il paese compresi vecchi e bambini a lezione da un maestro che parla delle antiche civiltà dalle quali prese origine e si diffusero il buddismo, a partire dal venerabile monaco Wonhyo, così come il confucianesimo attraverso l’opera di Yi Hwang e ancor di più il cristianesimo con il primo martire YI Seung-hun.
Il commento al documentario parla degli abitanti sulle rive del fiume come spiritualmente modesti e diligenti dediti al trasporto fluviale del cotone e della seta con un’arte particolare espressa dalla tipica cetra Gayageum dal suono celestiale.
Si susseguono le scene di vita paesana, con ragazzini vocianti che giocano a fare i soldati con i loro fuciletti di legno per finire gettandosi nel fiume felici sventolando le bandierine coreane.
A questo segue una sequenza animata che ha valso tutta la rassegna: si vedeva una cartina della penisola coreana ghermita da una luciferina mano guantata di rosso con lunghissime unghie affilate che cominciando da nord voleva impossessarsi di tutto il paese. Naturalmente si rappresentava così in modo quasi espressionista, la protervia della Corea del Nord, comunista e malvagia. Seguivano scene di eroiche battaglie, riprese dal vero di poveri profughi in fuga, carro armati americani e bombardieri B-29 che i soliti bambini scalmanati salutano festanti sventolando le bandierine.
I contadini si preparano a resistere costruendo trincee, ricoveri di fortuna e veri e propri bunker in caso di invasione. Si vede lo scheletro di un vero ponte abbattuto e ancora profughi costretti all’erranza e a nutrirsi della misera minestra degli esuli.
“Cosa faresti se morissi?” si chiedono a vicenda due giovani sposini. Lui sta per partire verso il fronte della guerra patriottica, è una festa per il paese che saluta il proprio eroe con canti, invocazioni e gran sventolare di bandiere. Il barcaiolo porta l’eroe lungo il fiume verso il sacrificio e la vittoria.
Alcune sequenze successivamente mostrano gli sconvolgimenti della guerra con mezzi americani coinvolti in furiosi combattimenti. La manina diabolica di cui dicevamo arretra per l’offensiva che lascia dietro di sé tragiche rovine e morti come prezzo per la “libertà”.
Dopo tante sofferenze, finalmente il giovane marito torna, la moglie sorridente gli corre incontro felice. E’ tornato da eroe decorato, ma ha perso un braccio; lei resistente sul fronte interno ha visto uccidere il loro piccolo figlio da una raffica di mitraglia; insieme si recano a portare un fiore sulla tomba del piccolo.
La bandiera sventola dappertutto in segno di vittoria, lo sciamano del villaggio fa un rito propiziatorio con l’acqua del fiume come segno di rinascita dopo la distruzione e la vita lentamente riprende. Si va al lavoro nei campi cantando e si ritorna felici e contenti con la zappa in spalla come fucile ai propri tuguri immersi in un paesaggio che si è già dimenticato delle ferite del conflitto e guarda al futuro.
Il seguito ideale di questo film, se si accetta l’azzardo, potrebbe essere “Il prigioniero coreano ” di Kim Ki-duk (2016) nel quale un povero pescatore della Corea del Nord viene trascinato dal fiume oltre il confine con la conseguente odissea per tornare sull’altra sponda, le acque comunque uniscono quello che gli uomini tragicamente vorrebbero dividere.
The Widow di Park Nam-ok (Corea del sud, 1955, 76′)
Non tutti i mariti però tornavano dal fronte e lo ha dimostrato un altro interessante film della rassegna, il primo girato in Corea da una donna. Nel paese prostrato dalla guerra con le truppe americane a farla da padrone, una povera vedova con una figlia piccola cui la guerra ha portato via il marito, cerca in ogni modo di “campare” la famiglia, s’arrabatta per farcela senza un soldo, ma con grande dignità. Tutta la vicenda ha un taglio decisamente neorealista con alcune punte perfino di cinismo nella rappresentazione di una società che appare spesso spietata e corrotta, soprattutto nei confronti dei più fragili.
“Credi davvero che tutte le vedove siano disperate?” chiede retoricamente la donna ad un altro personaggio che vorrebbe approfittarne. Lei però lo è davvero, ma per quanto le è possibile cerca di nasconderlo e sorride alla vita che però le sfugge e sembra evitarla.
E’ ancora giovane e bella ma se ne deve restare ogni sera “Mesta vicino al focolare” come la Cenerentola di Rossini. Qualche mala lingua comunque mette in giro la voce che sia una prostituta, ma lei non lo è almeno per il momento e cerca di difendersi dall’onta. Molto più disinibita la vicina di casa che per qualche spicciolo è disposta ad “intrattenersi” con i paganti.
La vedova finisce per flirtare con un uomo sposato, sia perchè si sente sola, sia perchè spera in qualche aiuto. La moglie dell’amante però se ne accorge e fa una piazzata, la furiosa però a propria volta ha una tresca con un giovane belloccio. Dopo vari intrecci, che sembrano quasi un pretesto per mostrare vari ambienti degradati di Seoul, , finisce che la povera vedova si mette insieme all’amante della moglie del proprio amante in un bell’intrigo, la cui matassa però gli spettatori contemporanei sono destinati a non sbrogliare perchè il film ci è giunto mancante della parte finale e con gli ultimi dieci minuti senza colonna sonora. L’impressione che se ne ricava è di una tragedia quotidiana che si scarica soprattutto su i più fragili. In alcuni dialoghi del finale si intuisce che la vedova disperata e tradita anche dall’ultimo amante, si dice pronta a sbarazzarsi della figlia dandola in adozione o peggio cedendola a qualcuno interessato. Il lungometraggio può essere inteso anche come specchio di una società totalmente prostrata dal conflitto e moralmente in balia di se stessa. La vedova è ritratta come una vittima della guerra, ma anche come una sopravvissuta senza scrupoli pronta ad approfittare della situazione proficua. Non stupisce il fatto che il film trovò enormi problematiche dalla produzione alla distribuzione. Lo sguardo della regista Park Nam-ok è molto lucido e il film non può essere considerato il solito melò per la sua ruvidezza e spirito di verità che rovista a fondo gli angoli più celati della società coreana d’allora. Proprio per questo, forse, rimase l’unico che potè dirigere
The Flower in Hell di Shin Sang-ok (Corea del Sud, 1958, 88′)
La prima sequenza mostra pickpockets all’opera tra operai coreani che vanno al lavoro, così fin da subito capiamo qual è l’ambiente (milieu) in cui si svolge la vicenda. Alcune gustose riprese in esterna mostrano veri militari americani in licenza che se la spassano per le strade di Seoul. E’ un altro tassello che ci aiuta a collocare temporalmente l’intreccio, per il resto si vedono le “signorine” in attesa dei militari con i rispettivi papponi che a Roma nello stesso periodo si chiamavano “borgatari” e “accattoni” proprio come nei film di Pasolini. Molto coinvolgenti proprio per questo le sequenze di cinema dal vero tra i banchi del mercato cittadino e quelle degli amanti sull’erba della periferia, per suggestioni che si possono agevolmente avvicinare a quelle di “Mamma Roma”.
Dong-shik il protagonista di cui facciamo subito la conoscenza, è un ingenuo campagnolo appena congedatosi dall’esercito. E’ venuto nella capitale alla ricerca del fratello che non vede da tempo e che la vecchia madre al paesello vorrebbe rivedere. Nel frattempo però Young-shik è diventato un piccolo gangster che vive sulle spalle della prostituta Sonya che si vende agli americani; nei dialoghi: “Tra uomini coreani e americani non c’è proprio alcuna differenza, entrambi vogliono la stessa cosa e l’importante è che abbiano i soldi, siamo le puttane degli Yankee”.
Young-shik è anche a capo di una banda scalcinata che ruba dai magazzini della base americana di Seoul per poi trafficare al mercato nero. Dopo varie ricerche i due fratelli finalmente s’incontrano, ma il gangster non vuole per nulla tornare in campagna e cerca di coinvolgere Dong-shik nei suoi loschi traffici.
Straordinaria la sequenza presa dal vero di un ballo alla base americana con i soldati a stelle e strisce che si accompagnano alla prostitute coreane mentre un’orchestrina (i Black Eyes) suona e una conturbante e scatenata ballerina si esibisce. Vengono in mente contemporaneamente Silvana Mangano in “Mambo” di Rossen (1954) e le sequenze del night club di “La Dolce Vita” di Fellini (1960). è straordinario come due paesi così lontani, ma con la stessa potente spinta all’omologazione culturale dovuta all’occupazione americana abbiano sviluppato caratteristiche artistiche e culturali così simili.
Mentre i militari ballano e gozzovigliano, la banda di Young-shik è all’opera nei magazzini cercando viveri e merce da poter rivendere, esattamente come la “Robba che cascava giù dai camion” nella Roma di Pasolini.
Il colpo va a segno, ma al gangster non basta e progetta qualcosa in grande stile. E’ un assalto ad un treno merci in pieno stile western: saltare sul treno in corsa dopo averlo affiancato con un camion, staccare gli ultimi vagoni da razziare. Prima però Young-shik deve mettere in riga il fratello ingenuo che si è fatto irretire da Sonya la prostituta che gli “appartiene”. Il regolamento di conti è a suon di cazzotti e la questione sembra risolta.
Sonya però decide di vendicarsi e anonimamente denuncia la banda alla polizia. Nel lungo finale del film si susseguono sequenze di eccezionale interesse: l’assalto al treno sventato dalla polizia militare che in un lungo inseguimento al camion dei banditi, con sparatoria sulla strada che fiancheggia i binari, infine riesce a sgominare la banda con il mezzo incendiato che finisce per ribaltarsi ai bordi della carreggiata uccidendo quasi tutta la banda. Young-shik, mortalmente ferito ma ancora in grado di reggersi, si trascina fino ad un terreno fangoso nel quale viene raggiunto da Sonya, la traditrice che lui finisce per uccidere dopo un’incredibile lotta nel fango da cineteca che ricorda vagamente il finale sulla sabbia di Johnny Guitar” di Nicholas Ray (1954). Tutta la sequenza è sostenuta da un’eccezionale brano in colonna sonora realizzato con il theremin.
ong-shik, infine, giunge anche lui sul luogo del massacro, giusto per cogliere le ultime parole del fratello a fior di labbra: “Prenditi cura della mamma”.Il sotto finale dopo le due sequenze drammatiche vede Dong-shik ritornare al villaggio dalla mamma portandosi Julie una delle prostitute della banda con la quale ha deciso di ricominciare a vivere in campagna…e vissero felici e contenti.
l film di per sé molto godibile, è ispirato evidentemente ad un certo tardo neorealismo di matrice italiana (Le notti di Cabiria di Fellini cui può essere con un certo azzardo paragonato è solo dell’anno precedente) ma ha anche come sottotraccia una problematica tutta coreana. Le “Comfort women” erano le schiave sessuali dell’esercito imperiale giapponese che occupò la Corea a partire dal 1910 fino alla fine della Seconda Guerra mondiale. Centinaia di migliaia di donne per decenni vennero rapite, vendute e forzate a subire gli abusi degli occupanti nei bordelli di guarnigione, non diversi purtroppo dai tantissimi che hanno costellato i teatri di guerra a tutte le latitudini (House of Dolls/Joy Division, ecc.).
Si stima che a guerra finita nel 1945, le schiave-prostitute sul suolo coreano fossero almeno duecentomila. Moltissime di loro erano state “razziate” dalle campagne circostanti le grandi città e non avevano più speranza di ritornare alle loro famiglie che in ogni caso non le avrebbero più accettate. Con la Guerra di Corea e l’intervento delle truppe americane, proprio come si vede seppur velatamente nel film, la situazione per queste donne non migliorò per niente, cambiarono solo padrone.
Il riconoscimento delle sofferenze di queste vittime di guerra è ancora un argomento molto spinoso nel paese del Calmo mattino e solo negli ultimi anni l’autentica tragedia ha potuto emergere dall’oblio. L’attivismo delle sopravvissute e l’interesse di alcuni studiosi ha permesso di portare a conoscenza quell’orrore che moltissime donne in tutto il sud est asiatico dovettero subire nel “secolo breve”. Tra i più recenti e significativi contributi il “period drama” che racconta la tragica vicenda di tante donne: “Spirits Homecoming” di Cho Jung-rae (Corea del sud, 2016, 127′).
The Wedding Day di Lee Byeong-il (Corea del sud, 1956, 80′)
Restaurato a cura del Korean Film Archive come tutti i titoli della pregevole retrospettiva, il film ha come sottotitolo: “Un giorno felice per la famiglia Meong”. E’ una pellicola scacciapensieri in costume e di ambientazione bucolica, una sorta di favola che riguarda un incantato villaggio nel bel mezzo della foresta, tra alberi svettanti e fiori colorati. La vicenda inizia e si conclude proprio con scene agresti di fanciullesca bellezza con contadini che macinano il frumento con il cavallo aggiogato alla mola; ragazze sorridenti e spensierate che colgono fiori, e poi ancora paesaggi verdi , ruscelli ed ogni altra sorta di amenità, infatti, è la “Valle delle campanule”
La bella Gap Bun deve sposare Mi parente di un ministro ricchissimo che farebbe la fortuna della famiglia della sposa. Naturalmente seguono tutta una serie di equivoci, scambi di persona che ricordano vagamente la straordinaria commedia di Gilberto Govi: “Maneggi per maritare una figlia” del 1959. Perfino nella Corea contemporanea il matrimonio per procura è tutt’altro che raro; sono le famiglie a mettersi d’accordo per combinare il matrimonio. Capita che gli sposi non si siano nemmeno mai visti in faccia prima delle nozze.
Come Paolo e Francesca a ruoli scambiati, in un fantasioso medioevo coreano, i due sposini coreani non si conoscevano. La famiglia della sposa viene a sapere da una voce non controllata e malevola, che il futuro marito è zoppo, proprio come il Gianciotto Malatesta della “Comedia” dantesca. Così con un sotterfugio si cerca di far sposare al malcapitato la serva di casa e al posto di Gap Bun. Quando si scopre che lo sposo è perfettamente sano si cerca di sostituire nuovamente la sposa, ma ormai il danno è fatto e il ricco pretendente finisce per sposare davvero la serva sotto mentite spoglie, con grande scorno di tutti. Ogni personaggio della vicenda è ritratto in modo caricaturale e macchiettistico, quasi da commedia dell’arte. Il personaggio più simpatico è il patriarca della famiglia e nonno della sposa che tutti considerano rintronato e demente e che è invece l’unico ad aver capito l’imbroglio fin da subito.
La vicenda ci appare del tutto spensierata, ma proprio nel finale ci rivela una morale del tutto inaspettata legata alla tradizione culturale confuciana del paese. La serva diventata padrona la prima notte di nozze finisce per raccontare tutto al marito beffato perchè vuole mantenersi pura. Lui però le rivela di essere stato al gioco fin dal primo momento perchè voleva sposare un cuore buono e umile proprio come lei e non quello di una qualsiasi figlia di buona famiglia capace però di qualunque bassezza e inganno come la vera Gap Bun. L’immagine della donna completamente sottomessa ai voleri dei maschi che emerge nel film è quella che purtroppo ancora persiste in Corea: in larghi strati della società ancora ancorati ad un’idea di famiglia tradizionale confuciana nella quale, non di rado i matrimoni vengono combinati a livello di clan.
(continua)
Flaviano Bosco per Instart.info 2024 ©