La città di Sacile nel periodo dell’avvento è ancora più incantevole del solito. Già a novembre, nella corte di Palazzo Ragazzoni, Giardini Ortazza e nella piazzetta Manin cominciano i tanti eventi che accompagnano la comunità verso le feste con concerti, mostre, mercatini e le affollatissime “casette” ovvero i tanti stand enogastronomici con il meglio delle succulente specialità regionali, nazionali e si continua così fino a ben oltre le festività di fine anno.

Nello stesso periodo, ormai si può ben dire tradizionalmente, al teatro Zancanaro si svolge la splendida rassegna Il Volo del Jazz. All’edizione di quest’anno come al solito ricca di suggestioni e delizie musicali abbiamo già dedicato una prima recensione che vede il suo completamento in queste righe con altri due interessanti concerti.

Entrambe le performance hanno regalato la possibilità di esplorare nuove geografie della musica d’improvvisazione come ci ha abituato da sempre l’ass. Controtempo che organizza la manifestazione.

Manou Gallo (basso, voce) Pit Cedric Huseyn (batteria) Yannik Werther (chitarra) Philippe Reul (piano, Keyboards) Ruben Hernandez Gonzalez (tromba) Ruben Valle Elorriaga (sassofono)

In collaborazione con il festival cinematografico “Gli occhi dell’Africa” di Pordenone, in esclusiva nazionale, si è esibita la bassista ivoriana Manou Gallo che si autodefinisce, a ragione, “Afro Groove Queen”. Con il suo gruppo di straordinari musicisti ha presentato il suo ultimo lavoro dal suggestivo titolo di “Afro Bass Fusion” che forse non definisce un nuovo genere ma da l’idea delle tante influenze e contaminazioni che contiene e celebra.

Manou Gallo ha voluto così omaggiare i grandi artisti della musica africana con i quali ha avuto l’avventura di collaborare o che l’hanno ispirata, su tutti Manu Dibango e l’immortale sciamano dell’Afro-beat, Fela Kuti.

Visto però che Il Volo del Jazz non ha mai voluto essere solamente mero intrattenimento ma anche un modo per riflettere in musica sulla realtà e sulla cronaca, prima dell’esibizione è stato letto un brano scelto da “Dovremmo essere tutti femministi” della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, non serve specificare per quale motivo.

L’uomo e la donna sono diversi. Abbiamo ormoni diversi, organi sessuali diversi, abilità biologiche diverse. Le donne possono avere figli, gli uomini no. O almeno, non ancora.

Gli uomini hanno il testosterone e in genere sono fisicamente più forti. Ci sono un po’ più donne che uomini nel mondo, circa il 52% della popolazione è femminile. Ma la gran parte delle cariche di potere e di prestigio sono occupate da uomini. Il premio Nobel per la pace kenyano, Wangari Maathai, l’ha spiegato bene e in modo semplice quando ha detto: “Più in alto vai, meno donne ci sono.” Alle ultime elezioni americane non si parlava che della legge “Lilly Leadbetter” e, se andiamo oltre quella bella alitterazione, si trattava semplicemente di un uomo e una donna che svolgono lo stesso lavoro, ugualmente qualificati, e del salario più alto per l’uomo, perchè è un uomo.

Quindi gli uomini controllano letteralmente il mondo e questo aveva senso migliaia di anni fa, perchè gli esseri umani allora vivevano in un mondo dove la forza fisica era l’attributo più importante per la sopravvivenza. La persona più forte fisicamente era quella più portata a comandare e gli uomini, in genere, sono fisicamente più forti. Ovviamente ci sono molte eccezioni.

Ma oggi viviamo in un mondo enormemente diverso. La persona più portata a essere leader non è quella più forte fisicamente; è la persona più creativa, la persona più intelligente, la persona più innovativa e non ci sono ormoni per questi attributi. Un uomo può essere intelligente tanto quanto una donna, o creativo, o innovativo. Ci siamo evoluti. Ma mi sembra che le nostre idee sul genere non si siano evolute.”

Si perdoni la battuta, ma a guardare l’Italia degli ultimi anni sembra quasi che il percorso evolutivo si sia invertito e che lo stadio di quadrumani non riguardi il nostro remoto passato, ma che ci stia davanti a breve distanza.

Il concerto è cominciato con vocalizzi registrati che accompagnavano l’entrata in scena dei musicisti che precedevano di poco la loro regina con gran capigliatura afro da vera leonessa. Manou Gallo ha subito imbracciato il suo basso cinque corde e, spalle al pubblico, ha cominciato a “slappare” un afrobeat raffinatissimo con il groove sostenuto, naturalmente, dai suoi ritmi decisi ed efficaci.

Dopo la frizzante introduzione, rivolgendosi al pubblico in un francese “equatoriale”, la musicista ha dichiarato: “Io sono una donna libera, libertà per le nostre sorelle e per i nostri figli. Ascolteremo della musica libera. Blues, rock, funk, ma soprattutto ci divertiremo.” Di certo in seguito non si è smentita.

In alcuni brani ha suonato anche la chitarra cantando un desert blues che ha il fascino del lontano ed era impreziosito dalla tromba di Gonzalez e dagli inserti chitarristici propriamente blues di Werther.

Manou Gallo con voce melodiosa ha raccontato l’Africa e, anche se la stragrande maggioranza delle persone presenti compreso lo scrivente, non capivano una parola di quell’idioma a metà tra il francese, il baulè e l’inglese, con il cuore si avvertiva distintamente la provenienza di quell’esotico sound condito con tanto, tanto funky in infuocata salsa piccante. Qualche base durante lo spettacolo era registrata, ormai lo fanno tutti, l’effetto è buono anche se a molti vecchi enobarbi, critici falliti, qualche perplessità resta. Come direbbe l’avvelenato poeta: “Voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi…” e via strologando.

In ogni caso sentire una band che ha il proprio centro di gravità permanente nel basso elettrico è quasi una rarità, se non si incontrano colossi come Marcus Miller. Con Manou Gallo e i suoi, fatte le debite proporzioni, non siamo troppo lontani, almeno in quanto a creatività, anche se non a capacità tecniche.

In una recente intervista le è stato chiesto: “Ha degli idoli musicali che la ispirano? Ha risposto: “E’ una domanda complessa, ma direi che ne ho tre. Marcus Miller per il suono e le melodie. Victor Wooten per la tecnica favolosa e Richard Bona per la facilità di suonare. Se riuscissi ad unire queste tre fonti d’ispirazione nelle mie composizioni, sarebbe meraviglioso.”(www.panm360.com)

Il basso elettrico della musicista è accordato allo scopo di produrre stravaganti suoni acquosi e liquidi tutt’altro che spiacevoli, la sua è una ricerca timbrica e non virtuosistica, anche nello slapping non è mai eccessiva o autocompiaciuta. Bisogna ricordare che la sua formazione iniziale è stata di percussionista e che solo in seguito, si è rivelata un’ottima “Bass Virtuoso”.

Dietro ai musicisti, sul grande schermo del teatro, passavano in loop immagini e motivi decorativi geometrici in stile africano che associati alla musica creavano un atmosfera anche visuale per nulla spiacevole.

In perfetto stile afro anche il “call e response” della bassista con il pubblico che chiama: “Famioo” e che risponde senza farsi pregare troppo.

L’omaggio all’eterno monarca dell’afrobeat Fela Kuti è stato emozionante ed energico, senza mai essere troppo aggressivo. Il suo suono del basso è stato sempre pulito senza troppe distorsioni alla Bill Laswell; ritmi di Manou Gallo non hanno sovrastato mai la band, ma hanno contribuito a creare una sinergia molto gradevole e di facile ascolto e non è certo una cattiva qualità.

La Regina dell’afro bass fusion ha giocato continuamente con il pubblico invitandolo a vocalizzare sui suoi accordi sempre più complicati fino ad una liberatoria risata finale collettiva; un trucchetto d’avanspettacolo vecchio come il mondo, ma che funziona sempre; lo scambio con il pubblico è stato infatti divertente e scanzonato.

Ad un certo punto, rimasta sola sul palco, la musicista ha soffiato in una bottiglietta d’acqua qualsiasi e aiutandosi con gli effetti di loop a pedaliera, ha costruito un tappeto sonoro straordinario ricchissimo sul quale poi improvvisare, continuando ad accumulare, in un intersecarsi di voci e di ritmi che s’avviluppavano all’infinito fino a spegnersi in lontananza lasciando posto ancora ad uno slapping travolgente.

Manou Gallo è brava, molto attenta e generosa con il pubblico con il quale intrattiene un continuo dialogo.

Afro bass fusion”, come dicevamo, è il titolo indovinato del suo ultimo lavoro, diviso in due singoli EP, sul quale ha scherzato e ironizzato durante un brano tutto scat. Clamorose le accelerazioni della ritmica che si avvalevano della propulsione dell’ottimo batterista camerunense Houseyn in perfetto interplay con Gonzalez, il sassofonista cubano.

Ad un certo punto la bassista ha chiesto di accendere le luci in sala per stimolare il pubblico a ballare; deve essere molto strano per alcuni musicisti vedere tutto il pubblico seduto e composto mentre loro suonano ritmi tellurici e indemoniati.

E allora, tutti in piedi a scatenarsi; così come si fa in Africa utilizza nel modo più coinvolgente lo scat e finalmente si fa sentire anche il sax tenore che si prende il proprio momento per un assolo scintillante nella sua semplicità ritmica e apparente linearità

Fami oh-oh, fami o

Merci beaucoup à tout le monde.

Ma nessuno dei presenti ha voluto lasciarli andare via senza almeno un bis e si danza ancora al ritmo dell’Afro Beat. Senza alcun dubbio il futuro è donna e abita il continente africano. Anche se non è mai muscolare o iper-virtuosistica sa ben infiammare le platee con il suo strumento.

Il suo basso non cambierà di certo la storia del jazz come quello di Pastorius o di Stanley Clarke, ma sicuramente ci farà divertire ancora un sacco.

(continua)

© Flaviano Bosco – instArt 2024