Quando mancano pochi mesi all’annuncio del calendario della nuova edizione torniamo con la memoria ad alcune pellicole della passata rassegna completando così, con altri due approfondimenti, la serie dei quattro previsti.
Tra le testimonianze più interessanti dell’epoca del muto che spesso passano alle Giornate di Pordenone ci sono di certo i frammenti di film incompleti, perduti, a volte del tutto sconosciuti e privi di riferimenti e didascalie. Il fatto che siano solo brandelli di una storia che una volta aveva anche capo e coda stimola la fantasia dei semplici appassionati e dei cinefili più incalliti.
Non sapere come va a finire una storia, anche quella apparentemente più scontata, lascia sempre con una curiosità inappagabile e quasi perversa perché cercata. Il cinefilo ama farsi stupire e contraddire da ciò che vede, anela a farsi sorprendere e a trovare quel piccolo particolare che possa stimolare le proprie fisime di nevrotico compulsivo. Quando è la stessa propria fonte di piacere a negarsi irrimediabilmente, la frustrazione e perciò il gioco sfibrante del desiderio che si nega diventa piacevolmente insostenibile. La seduzione più intensa e sublime è quella che non si da mai e continua all’infinito a tentarci e quando l’abbiamo a portata di mano ancora più sensuale è rinunciarci. Non serve aver letto “Il diario di un seduttore” di Kierkegaard per capire che per un malato di cinema il film più bello è quello che non riuscirà mai a vedere, ma che desidererà sempre scoprire senza mai riuscire a soddisfare la sua sete e fame di immagini, esattamente come un Tantalo del cinematografo. Non sembri una pazzia, anche se lo è davvero, la cinefilia ha in sè certamente alcuni aspetti delle sindromi nevrotiche voyeuristiche, lo certificano biblioteche intere di volumi che trattano di psicopatologia e cinematografia, non è certo una novità.
La vita e la morte di Mario Caserini (Italia 1917, 7’35”)
 
Poco più di sette minuti per una pellicola che resta misteriosa e piuttosto affascinante. Primo motivo d’interesse è la partecipazione come protagonista di Giselda Lombardo, in arte Leda Gys (1892-1957), protetta e amante fin da giovanissima del poeta Trilussa dal quale venne introdotta nella nascente industria cinematografica. Divenne diva amatissima, soprattutto della commedia amorosa di ambientazione partenopea che negli anni ’10 spopolava in Italia e all’estero, tanto che tra gli oriundi negli Stati Uniti era considerata alla pari di Francesca Bertini. In un destino tutto italiano si sposò con il produttore della Lombardo Film che in seguito divenne Titanus con la gestione del figlio della coppia. Leda Gys (anagramma di Giselda), nelle immagini d’epoca, in generale appare allegra, spiritosa, birichina e molto sensuale; anche se interpretò anche il ruolo di Maria santissima sotto la croce, la sua caratteristica principale resta un atteggiamento popolaresco, di una bellezza ubertosa e florida, molto diversa dalle dive inaccessibili ed altere del tempo. Anche quando  interpreta la ricca moglie borghese di un magistrato, come nel film di Caserini, non fa per nulla la parte della casta vestale, custode del focolare domestico, ma quella della sfacciata adultera che finisce per un caso del destino nelle mani di una banda di tagliagole. La moglie infedele, mentre trascorre un periodo di villeggiatura sul lago, utilizza il motoscafo del marito, sempre assente per raggiungere l’amante, incurante della piccola figlia che lascia sola. Per una manovra azzardata, naufraga e viene data da tutti per morta. In realtà, è stata ripescata, priva di memoria da due loschi individui che la sequestrano credendo di poterne cavare qualche soldo. La  affidano ad una donna di servizio alcolizzata che mentre assiste la smemorata trangugia bicchierini di cordiale come un alpino all’adunata. Il marito, prima vedovo inconsolabile, scopre attraverso una lettera il tradimento della moglie e si dice contento che abbia pagato con la vita l’adulterio, “mentre la bambina piena di pianto agli occhi” si sente abbandonata e nell’ultima sequenza rimastaci, getta una corona di fiori nel lago in ricordo della madre. A stupire di più oggi della pellicola è il fatto che sia stata girata mentre infuriavano le battaglie sul Carso della Prima Guerra Mondiale e che l’Italia si stava preparando inconsapevolmente ma in modo inesorabile alla disfatta di Caporetto. Questo è stato probabilmente uno dei film che qualche reduce dal fronte si poteva vedere durante le licenze; un’Italia piccola nella quale i soldatini e le servette sognavano al cinema di evadere dalla brutale realtà quotidiana facendosi irretire dalle storie borghesi e tragiche nelle quali “Anche i ricchi piangono”. Esattamente come oggi anche se i film ce li guardiamo tutti sui devices digitali.
Rivalen di Harry Piel (Germania 1923, 106′)
Compreso nella rassegna dedicata allo spericolato pioniere del cinema d’avventura Harry Piel, Rivalen, conosciuto anche come Der Elektromensch (L’uomo elettrico), fa parte di una serie di rocambolesche avventure nella quale alcuni personaggi sono ricorrenti. E’ il caso dello scienziato pazzo Ravello, acerrimo nemico del protagonista Harry Peel (pseudonimo appena modificato dello stesso regista) al quale ha giurato eterna vendetta. Ravello nelle sue trame si fa aiutare da una procace fioraia, luciferina e moracciona, disposta a qualsiasi bassezza per emanciparsi dalla propria povertà. Narrativamente la vampira è contrapposta all’angelicata e biondissima figlia di un facoltoso industriale innamorata dell’intrepido Peel. La pulzella bionda organizza una gran ballo in costume a tema nel castello di famiglia: la festa dell’inferno con dress code obbligatorio di diavoli e diavolesse. Il perfido Ravello fa di tutto per partecipare perché sa che il suo arcinemico Harry Peel sarà naturalmente presente. La sequenza del baccanale è particolarmente riuscita e fa intuire quali fossero gli svaghi e le autentiche orge degli altoborghesi nella Germania tra le due guerre e appena dopo il biennio rosso. Mentre gli effetti del punitivo e irresponsabile trattato di Versailles causavano una spaventosa crisi d’inflazione che proprio nel 1923 ebbe il suo apice con il pane a 400 miliardi di marchi al chilo, sugli schermi si proiettavano lubriche vicende di altrettanto triviali borghesi impegnati nelle loro tresche, vero e proprio cinema d’evasione del quale Harry Piel era indiscutibilmente il maestro.
Lo spietato Ravello vuol far piazza pulita dei suoi nemici introducendo alla festa diabolica una vera e propria creatura maligna, un uomo meccanico che lancia fiamme e fulmini dagli occhi. Quando la festa raggiunge il suo apice, il demone telecomandato si attiva mettendo tutto a ferro e fuoco nel fuggi fuggi generale. Le sequenze sono davvero rocambolesche e anche se il “cosone” sputafuoco oggi fa un po’ sorridere, la suspance e qualche brivido sono ancora assicurati a cento anni di distanza in piena era di Green screen e computer graphics. A stemperare il clima teso e apocalittico della tragica mascherata, il regista ha inserito un sottotesto in cui si susseguono anche le disavventure di due ubriaconi imbucati al ballo che sfruttano il trambusto per trangugiare gli alcolici del rinfresco mentre tutto il “mondo” va in fiamme; è il giusto tono ironico e da commedia che a voler esagerare potremmo definire shakespeariano.
La sequenza del ballo che finisce in tragedia fa venire in mente il racconto La maschera della morte rossa di E.A.Poe che ultimamente ha avuto una nuova versione cinematografica o meglio in una serie TV ed è La caduta della casa degli Usher di Mike Flanagan (2023) nella quale si rielaborano in chiave moderna gli orrori del grande scrittore americano. Nel secondo episodio la morte arriva alla festa come sempre crudelissima e del tutto inaspettata e finisce molto molto male. Anche se potrà sembrare un sacrilegio accostare un film muto all’episodio di un serial, guardarli in sequenza ci permette un autentico viaggio nel tempo per quanto riguarda la storia della VII arte e in quella della tecnologia dell’ultimo secolo.
Nel film, mentre la sala del castello si incendia a causa degli strali del robot, Ravello rapisce la giovane bionda figlia del facoltoso proprietario. L’intrepido Peel si mette all’inseguimento e salva la sua bella in modo rocambolesco con tanto di scambio di persone e salto nel fiume con l’automobile; il tutto culmina nella fulminante battuta: “L’inseguimento e il bagno nel fiume me li sarei anche risparmiati”. Ravello non si da per vinto e cattura Peel minacciandolo con uno splendido revolver Iver Johnson Mod. Safety Harmerless Nikel Plattet, 5 colpi, cal.32, per la precisione. Il nostro eroe si trova rinchiuso in un sommergibile che lo scienziato pazzo utilizza per i suoi loschi traffici. Naturalmente Peel riesce a liberarsi picchiando l’intera ciurma di marinai e facendo naufragare il batiscafo, rompendo uno degli oblò, in una sequenza che oggi sembra ridicola e involontariamente auto parodistica, ma che a pensarci bene, è alla pari delle smargiassate dei supereroi contemporanei. L’implacabile Ravello rapisce nuovamente la bella Evelyn fuggendo in calesse, mentre altri marinai mimetizzati da rocce su di una spiaggia catturano ancora l’indomabile Peel. Il supplizio questa volta è garantito: “Sbattetelo nella campana!” dice il perfido capo dei criminali. Così il nostro eroe viene calato in mare in un’enorme teca trasparente tutto incatenato come il mago Hudini; se Evelyn non prometterà al perfido Ravello di sposarlo, Peel morirà soffocato nella campana di vetro in fondo al mare. Dopo alcune scene strazianti lei finisce per cedere anche se ormai sembra essere troppo tardi. La coppia si avvia verso l’estorto matrimonio; Peel si libera dagli abissi all’ultimo momento e corre con ogni mezzo per riuscire a impedire la scellerata unione, ma nonostante tutto arriva in ritardo, il matrimonio è legalmente valido. Con il cuore in gola, a questo punto, gli spettatori vedono comparire il cartello fine con la raccomandazione di voler seguire il completamento dell’ingarbugliata matassa alla prossima puntata.
Film britannici delle origini nella Filmoteca de Catalunya (1897-1909)
Eduardo Gimeno Correas è stato un grandissimo pioniere del cinema spagnolo attivo nel settore fin dal 1895, autore di uno dei primi film spagnoli in assoluto (Salida de misa del Pilar de Zaragoza, 1909) e collezionista di preziosissime testimonianze di quell’epoca pionieristica; alcune pellicole sono suoi acquisti diretti presso i Lumière e Méliès. La Cineteca di Catalogna da alcuni decenni ha cominciato il restauro, la digitalizzazione e la catalogazione dell’immenso materiale, dal quale per la rassegna pordenonese sono stati selezionati alcuni film inglesi davvero interessanti anche per il loro carattere del tutto eterogeneo. Si vedono così le prime linee elettriche nella capitale, un pagliaccio dall’aspetto sinistro che fa salire tantissima gente su una carrozza con modi sbrigativi e violenti, un po’ l’archetipo del clown inquietante entrato nell’immaginario horror contemporaneo (It, Twisty di AHS, Captain Spaulding) o forse siamo noi che retrospettivamente lo percepiamo così. Sempre nello stesso ambito risultano addirittura stranianti le immagini della parata del circo davanti alla regina tra cavalli, carrozze, cammelli, banda militare, cineserie di ogni sorta, somari e pagliacci, carrozzoni a forma di nave e vari carri allegorici.
Molto significative anche per capire l’origine e l’evoluzione di un certo linguaggio cinematografico sono le immagini riprese dalla cabina di una locomotiva che trascina un treno verso un’isola poco al largo collegata alla terraferma attraverso un ponte tutto travature metalliche e bulloni. Quello realisticamente ferroviario è un tipo di racconto cinematografico che non ha mai perso il suo fascino. Il cinema, le imponenti costruzioni in metallo, il treno sono simboli essi stessi della modernità così come l’immagine dei binari che corrono verso l’infinito nel quale non s’incontreranno. L’arrivo alla stazione del treno, il viaggio da un luogo ad un altro sono ancora potenti metafore del nostro vivere. Si veda solo a titolo di esempio “Scompartimento n.6 – In viaggio con il destino” del finlandese Juho Kuosmanen (2021) che, in un certo senso, non è nient’altro che un’estensione dei 50 secondi de “L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat” di Louis e Auguste Lumière (1896). Fa invece pensare ad una meravigliosa scena del “Napoleon vu par Abel Gance” la sequenza di immagini di una divertentissima battaglia a palle di neve ripresa sulle alpi svizzere nel 1903. Nella collezione di Correas non ci sono solamente film girati dal “vivo”, ci sono anche alcune interessanti fiction che dicono moltissimo sul loro tempo e sui gusti di chi ne fruì. In “Una questione d’onore” si dileggia la passione dei francesi per le gerarchie militari e per le futili e insensate questioni d’onore. Due azzimati signori si sfidano in un duello alla pistola, ma hanno una pessima mira e uccidono i secondi e tutte le persone che gli stanno attorno sbellicandosi dalle risate. L’Affare Dreyfus (conclusosi nel 1906 con il reintegro dell’accusato) non era troppo lontano così come “Il duello: racconto militare” di Conrad, pubblicato nel 1907, simboli e metafore di un’epoca che finirà davvero per affrontarsi nel bagno di sangue della Prima Guerra mondiale. Un’altra fiction dimostra che nel linguaggio cinematografico si è inventato ben poco di radicalmente nuovo negli ultimi cento anni. In “Furto eccentrico” la sceneggiatura è veramente minima: due ladri mascherati si introducono in una casa per svaligiarla, ma intervengono i poliziotti, scatta un canonico spericolato inseguimento, niente di speciale e invece no! La pellicola è davvero straordinaria perché tutta girata e montata al contrario sfruttando i vari effetti “speciali” ancora attuali anche nell’epoca della computer graphics, basti pensare al lavoro sull’immagine “palindroma” di Christopher Nolan da Memento a Tenet e non si tratta di fare solamente dell’archeologia del linguaggio cinematografico, ma di capire che la consequenzialità e la linearità di alcune percezioni non sono nient’altro che un’illusione; lo si sapeva già prima del cinema, ma cento e passa anni di grande schermo ce l’hanno fatto capire meglio.
Arrivo a Durazzo di Guglielmo di Weid, principe d’Albania, marzo 1914 , (Fr, 4’56”)
Copia francese di un brevissimo cortometraggio di enorme valore storico che fotografa il momento immediatamente precedente al deflagrare del Primo conflitto mondiale, quando nei Balcani si stava già giocando da un pezzo una logorante partita a scacchi tra le diplomazie degli imperi centrali e degli stati colonialisti europei e il morente impero ottomano. La macchina della propaganda, con il cinema in testa, stava già lavorando a far apparire gli stati degli slavi del sud e tutta l’area come un oriente indefinibile e bizzarro; l’idea e il pregiudizio sui Balcani barbarici, feroci e tribali cominciava già ad esprimersi in quegli anni e non è per nulla scomparso. Dopo le atroci Guerre Yugoslave degli anni ’90 è andato perfino rafforzandosi per giungere al culmine proprio nei nostri giorni martoriati dal conflitto russo-ucraino. La pellicola in questione è un frammento di cinegiornale che documenta i fatti di Durazzo del 7 marzo 1914. Le potenze europee avevano scelto per l’Albania un regnante fantoccio, manovrabile e manipolabile a piacimento; la scelta cadde sul vanitoso quanto innocuo principe tedesco Guglielmo di Weid che finì per regnare per soli sei mesi. Fu un disastro diplomatico che fece precipitare il paese nel gorgo spalancatosi dopo l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914. I pochi mesi in Albania della coppia reale di Weid e della corte sembrano il soggetto per una di quelle operette davvero bizzarre che potrebbero sembrare molto divertenti se non fossero il prologo di un’inaudita tragedia.
In sostanza quello che si vede nei pochi minuti della pellicola sono le corazzate e gli incrociatori europei alla fonda nel porto di Durazzo festanti di bandierine ma in realtà minacciosi con i loro cannoni da 350 mm. Il resto sono delegazioni di vari paesi in parate di militari e funzionari impomatati e impennacchiati nelle uniformi delle grandi occasioni. Colpisce, per esempio, la delegazione di Teheran con vessilli, fucili ad avancarica con calcio in madreperla, fez e baffoni, ai limiti della surrealtà.
Una didascalia recita: “Un momento storico, la bandiera del giovane principato d’Albania viene issata per la prima volta al saluto della flotta internazionale”, sull’incrociatore salgono il principe e la moglie, il pennacchio dell’alta uniforme (disegnata personalmente dal sovrano) sbatte sul soffitto del ponte superiore in modo davvero poco regale. Passa in rassegna i marinai schierati sulla tolda della nave, onori, omaggi e saluti, strette di mano, alte uniformi con gli alamari e la chincaglieria bene in vista sul petto, sciabole sguainate e principessa consorte con cappellone e veletta. Parata e red carpet con, infine, un ragazzo-scopino che toglie le fiande dei cavalli come personaggio più interessante e vero.
L’ambasciatrice dell’amore di F. Wendhausen (Ger 1928, 98′)
La pellicola è stata proiettata in continuità con la rassegna che già nella scorsa edizione aveva destato grande interesse, basata sulla “Ruritania” ovvero il luogo immaginario e cinematografico che riassume tutti gli “orienti slavi” che abitavano le fantasie della VII arte e del pubblico tra le due guerre mondiali. Mentre gli appetiti geopolitici si scatenavano sui “corpaccioni” degli imperi centrali, i Balcani erano diventati una zona liminare sulla quale le fantasie più bizzarre potevano liberarsi in storie di principesse, amorazzi, regni perduti, tradimenti, vendette e via di seguito in un immaginario che sublimava in farsa le tensioni interne all’Occidente proiettandole su regni illirici immaginari, ma verosimili.
Attraverso i tanti film di questo autentico genere, che ha le proprie radici nell’operetta viennese, era anche possibile osare prendersi gioco e satireggiare le diplomazie e le corti regnanti europee. Il fascino per le vicende personali ed i vizietti dei sovrani è un elemento fondante della cultura d’Occidente, da Shakespeare alla serie tv The Crown, da Elisabetta I d’Inghilterra a Elisabetta II; da Maria Stuarda a Catherine Elizabeth Middleton, principessa del Galles.
Nel film, da qualche parte nel sud dell’Europa, al confine tra due potenti e rapaci Stati, c’è il principato di Silistria. Una manina con penna e pennino disegna la cartina della costa dalmata e indica gli immaginari confini dei regni di Illystrien, Turkisien con in mezzo, piccola piccola, ma strategicamente incastrata tra i due colossi, la Silistrien, tutte immaginarie regioni balcaniche.
La Prima Guerra Mondiale aveva lasciato spazio per un immaginario all’apparenza del tutto surreale con confini che cambiavano dal giorno alla notte, frontiere e popoli costretti all’esodo. Nel film anche la capitale è del tutto immaginaria, ma le sequenze sono state girate nella meravigliosa Ragusa/Dubrovnik di incredibile bellezza, ripresa dall’alto con le sue pietre e le sue vie lastricate.
La flotta e le forze armate del piccolissimo regno sono talmente esigue da apparire ridicole e caricaturali; le sorti del paese sono affidate solamente agli accordi diplomatici e agli intrighi di politici.
A palazzo la corte è tutta impomatata e dagli stivali lustri, il cancelliere riceve le donne del popolo in costume tradizionale.
La principessa bella e maliarda è stesa sulla chaise longue e fuma una sigaretta con un lungo bocchino in osso; il cancelliere le sta leggendo con una certa gravità la lista degli invitati di Turchisia e Illiria per un ricevimento in onore delle trattative per la vendita dell’isoletta di Petrasia nel mare prospiciente la capitale del minuscolo regno. Il fazzoletto di terra in mezzo al mare è strategico per gli equilibri politici dei due enormi regni rivali confinanti e la principessa  vuole approfittare delle tensioni per venderla a caro prezzo. Ha bisogno di liquidi per pagarsi l’esorbitante conto della sartoria parigina che le confeziona gli abiti esclusivi che costano quasi come il suo regno. In una divertente sequenza il solito cancelliere legge contrariato il conto della sartoria: mantello di visone, vestito da cortigiana in argento, uno da ballo con paillettes, la gran toilette da ballo Pompadour. Si vede anche la fattura con specifica: 475000 franchi. “Volete farmi andare in giro nuda?” risponde piccata la principessa al sottoposto percependone, ma non approvandone l’indignazione. “Vendete l’isola al maggior offerente”.
“Ad una certa” arriva in treno la delegazione Illirica con il conte Geza che viene scambiato per il proprio attendente, in un tipico scambio di persone da commedia classica. Dalla Turchesia, invece, arriva una donna in automobile, molto emancipata; finisce la benzina sulle aspre colline e deve farsi trainare dal bue di un povero contadino divertito. Viene derisa dai ragusani lungo la strada. Desta qualche interesse, per lo meno etnografico, il fatto che non siano semplici comparse, ma autentici abitanti della città vestiti in abiti tradizionali che non sono abiti di scena, ma i loro veri costumi quotidiani. Entra nella capitale e prende alloggio in incognito nel migliore albergo, anche perchè non ce n’è un altro con il bagno in camera, che consiste in una tinozza e un rubinetto a muro. Il padrone gliela illustra come una novità della tecnologia moderna mentre lei se la ride con sussiego. E’ proprio in quei sorrisi che possiamo leggere tutto il dileggio fino all’autentico disprezzo che molta parte d’Europa covava allora nei confronti dei popoli slavi ritenuti arretrati, con usanze anacronistiche e tutt’al più folkloristici. Non serve essere troppo acuti per comprendere che anche questa divertente commediola contiene i semi di quell’odio che poco più di un decennio dopo avrebbe dato origine al secondo conflitto mondiale e alla Shoah.
La corte la accoglie in udienza con sospetto, anche perché si fa passare per giornalista. Ad esserle ostile è soprattutto il cancelliere che però diventa tutto inchini quando scopre che è lei la vera ambasciatrice. Lei è molto spigliata e spiritosa, si prende gioco amabilmente dell’ambasciatore illirico suo avversario, tutto impennacchiato, rigido e militaresco e molto sensibile al fascino muliebre. “A la santé de ma belle adversaire”, “sarebbe stato più galante brindare al mio successo” risponde lei acidina. Mangiano con l’accompagnamento di un’orchestrina tzigana e di ballerini folkloristici che fanno le giravolte in attesa del ricevimento ufficiale, bevono e gozzovigliano fino a tarda ora. Lei amoreggia civettuola, ma il suo obiettivo è il possesso dell’isoletta. Seguono tutta una serie di schermaglie tra i due ambasciatori e la principessa molto divertenti, con i soliti equivoci, scambi di persona, seduzioni, e gran risate. L’alta diplomazia europea è rappresentata e ridotta ad un gioco di coppie e di amorazzi più o meno clandestini. Ben altri fantasmi si stavano aggirando in quegli anni per l’Europa che subiva ancora gli effetti degli sconquassi dovuti alla Prima Guerra Mondiale e stava correndo a grande velocità verso un’altra catastrofe. Molto spesso anche oggi la pubblicistica e la propaganda di bassa lega ci presenta la politica internazionale attraverso il gossip più becero, come se tutto fosse una specie di circo equestre nel quale si esibiscono sbruffoni, saltimbanchi e principessine, che durante i grandi meeting pensano solo a mangiare e bere serviti da grandi chef, litigano per farsi la foto tutti insieme come alla scuola elementare e poi gran sorrisi e dichiarazioni estemporanee. Questa è la narrazione che ci viene ammannita dai media, si ricordino le corna di Berlusconi o le donnine nel lettone di Putin. La realtà è molto diversa e proprio in questi ultimi mesi ne abbiamo avuto prova con la guerra russo-ucraina e il genocidio in Palestina. Dietro ai grandi sorrisi a 64 denti dei diplomatici e dei ministri degli esteri ci sono i caccia che bombardano gli ospedali e milioni di persone che sono costrette a vivere nei campi profughi che spesso vengono perfino bombardati.
Il film comunque si lascia guardare, in fondo è una commedia romantica sugli equivoci. Noi purtroppo abbiamo il vizio di guardare retrospettivamente a quei film storicamente situati senza tener conto che gli autori non potevano condizionare le proprie scelte in funzione di qualcosa di misterioso che per loro si chiamava futuro, ma che per noi è quasi un passato remoto.
(continua)
Flaviano Bosco per instArt 2024 ©