Una delle manifestazioni più blasonate della scorsa estate della destra Tagliamento ha avuto il suo momento più alto ed emozionante nel concerto che il grande trombonista americano Fred Wesley ha voluto donare alla città per il suo compleanno. Festeggiare i propri ottant’anni sul palcoscenico dopo almeno sessant’anni di ininterrotta carriera non è da tutti, anche se oggi non è esattamente una rarità.
Ci sono molti grandissimi musicisti del rock e del blues in generale che hanno ormai raggiunto il medesimo traguardo in perfetta attività. Tutta una generazione di fantastici artisti ci sta arrivando. Senza citare Bob Dylan che gli ottanta li ha scavallati sfornando negli ultimi anni un disco più bello dell’altro, ci sono i tre Rolling Stones che hanno appena licenziato un nuovo disco di inediti cui seguirà l’ennesima tournée mondiale. Negli ultimi tempi sui palcoscenici europei si è rivisto perfino Arthur Brown, l’inossidabile creatore della psichedelia inglese, che alla bella età di 81 gioca ancora col fuoco nel suo pazzo, pazzo mondo.
Il trombonista nato in Georgia e cresciuto in Alabama, è in bella compagnia e il rock’n’roll non è mai stato così giovane come oggi che è decrepito.
Non tutti i grandi miti della musica, a dire il vero, sono ancora tra noi. A parte il famigerato e sterminato “Club dei 27” composto da quelli che ci hanno lasciato molto prima di avere anche un solo capello bianco, molti altri se ne sono andati prima di raggiungere l’età dei patriarchi.
E stato così per Tina Turner che se n’è andata solo qualche mese fa. Fred Wesley iniziò la propria luminosa carriera proprio nella band di Ike and Tina Turner, per poi entrare a far parte già ai suoi esordi delle compagine di Count Basie, Ray Charles, Lionel Hampton e questo è stato solo l’inizio.
Assieme al suo compleanno si festeggiavano anche i 50 anni d’attività della band che da sempre lo accompagna, la J.B.’s, che continua a trascinare il pubblico come ai tempi del Godfather of Soul James Brown.
Per non farci mancare mai niente, le due celebrazioni coincidevano anche con i 25 anni di Blues in Villa. Evviva la musica!
Il concerto doveva tenersi nella tradizionale incantevole cornice di Villa Varda a Brugnera (PN) ma le previsioni meteo, assolutamente inclementi, hanno costretto gli organizzatori a ripiegare sulla sala congressi di un hotel lì vicino.
E’ stata una vera fortuna, il concerto, in quello spazio relativamente ristretto e al piano interrato, ha acquistato la dimensione torrida del club, assolutamente ideale per il groove del funky. Praticamente non c’era alcuna separazione tra platea e palcoscenico e l’energia fluiva direttamente dalla platea ai musicisti e il contrario in uno scambio continuo inarrestabile.
Ad aprire la serata, un set tutto divertimento e disimpegno degno di una sagra di paese, grassa e “unta e bisunta”, di una band “nostrana” con il cuore a Memphis (Tennessee):
Pussy Wagons: Jay Tommasini (chitarra, voce) Angelo Chiocca “Blue Angel” (Sax, voci) Francesco Cainero (contrabbasso) Jimmy Bolco (batteria)
Sul loro facebook si presentano come: “Rock & Roll and Rockabilly band from Trieste (Italy), the best choice to make people jump and dance” e non mentono, mantengono fino in fondo quello che promettono nel “claim”.
I Pussy Wagon sono stati davvero improbabili come gruppo spalla a Wesley e alla sua band, per genere e ispirazione, ma in fondo sono stati anche divertenti e scanzonati con il loro rock’n’roll sanguigno e caramellato come la brillantina scaduta.
E’ proprio vero che il blues ha avuto un figlio degenere che si chiama rock’n’roll e loro ne sono un esempio.
Con pezzi come “Motorcycle Mama”, i rocker con la Lambretta hanno giocato e scherzato con la musica che giustamente non deve sempre essere una cosa seriosa e greve da accademici barbuti.
E’ bella la “musica seduta” nell’oscurità di una sala tra struggimenti e meditazioni tibetane, ma è altrettanto vivificante quella scossa di energia che ti fa vibrare e saltare e ti impedisce di stare fermo: “Shake baby Sake!”
Chi ha una certa età e un’attitudine randagia ricorda di certo quella stella splendente della musica pop che furono gli Stray Cats che cavalcarono l’onda del movimento rockabilly.
Con la loro chitarra Gretsch 6120 (1959), lo strapazzatissimo contrabbasso in alluminio e poi ancora il rullante, charleston e gran cassa riportarono agli onori delle classifiche le sonorità e l’estetica degli anni ’50 con i ciuffi improbabili ed esagerati, il chiodo alla Marlon Brando, le “Blue suede shoes” e l’atteggiamento da gattaccio di strada. Proprio a questa musica e al suo universo musicale di riferimento si ispirano band come i Pussy Wagon.
Il loro universo è popolato di motori, belle donne con le curve di un autodromo e un po’ di quel machismo da bulletti di periferia che fa ridere per non piangere.
Di certo Angelo Chiocca al sax è un ottimo intrattenitore e Tommasini è un chitarrista che sa trarre trascinanti emozioni dal proprio strumento; convincente la sezione ritmica anche se il genere non le può consentire troppo spazio.
La scaletta ha puntato decisamente sui classici da “festa delle medie” come dice Elio.
Primo fra tutti “Apache” dei The Shadows (1960), il brano che più di ogni altro, per gli europei di una certa età, ha evocato il mito della frontiera, sia in salsa tex-mex, sia quella spaziale grazie alla leggendaria cover dei Rockets.
Non è mancata nemmeno una versione in acido per l’epocale Buona sera di Dean Martin che a propria volta richiamava Fred Buscaglione “buonasera signorina buonasera”. I “Pussy Wagon”, non c’è dubbio, hanno l’energia giusta per le serate estive, per le feste campestri e le sagre paesane della porchetta o delle rane.
Infatti, inevitabile come le tasse e la “nera signora” nel gran finale è esplosa “Tequila” dei The Champs (1958) con “Gin Tonic” al posto di Tequila perchè l’agave blu non ci piace.
C’è davvero poco altro da dire sui “Pussy Wagon”, perciò ci fermiamo qui.
Fred Wesley and the New Jb’s Fred Wesley (trombone, voce) Gary Winters (tromba) Jay Rodriguez Sierra (sax) Peter Madsen (piano, tastiere) Dwayne Dolphin (basso) Bruce Cox (batteria)
Il giro di basso che apre le danze è quello sornione e felino di “Chameleon” dal fondamentale “Head Hunters” di Herbie Hancock, anche lui ormai splendido ottantenne che continua a far strabiliare il mondo della musica con le sue estasianti esibizioni.
Al ritmo tribale del basso si sono aggiunti l’uno dopo l’altro tromba, trombone, flauto traverso, chitarra, batteria, tastiere. In una sorta di movimento spiraliforme nel quale gli strumenti agivano per accumulo e stratificazione in una continua ripetizione che virtualmente poteva continuare in eterno uguale a se stessa e cioè in continua mutazione.
Ognuno dei musicisti moltiplicava le rifrazioni e le vibrazioni dei beat iniziali che erano come perle infilate l’una dopo l’altra su un lunghissimo giro di una collana preziosa e luminescente. Il funky è ritmo scarnificato che gira su se stesso in una continua ricapitolazione e falsa partenza, sembra non andare da nessuna parte e invece rimbalza di cuore in cuore, è ovunque bellezza e luce accecante.
Non serve dire che, con una partenza così, Fred Wesley e la sua band si sono conquistati immediatamente il favore del pubblico che non poteva fare a meno di ondeggiare e di battere il tempo anche se la sala piena all’inverosimile non permetteva grandi movimenti.
Il bassista martellava e slappava le corde dietro il ponticello. Lo fanno tutti, ma sentirlo fare dal vivo sembra sempre la prima volta. E’ stato davvero trascinante vedere e ascoltare una band funky come loro con la sezione fiati davanti e le ritmiche dietro, cambia davvero la prospettiva d’ascolto.
Wesley, dall’alto della sua età “importante”, non si è certo risparmiato suonando a memoria ogni singola battuta guidato dall’istinto e dall’esperienza di migliaia di concerti che ha alle spalle e di tutti quelli che lo aspettano nel futuro.
I suoi modi di fare non sono per nulla accademici, non è un jazz man che con l’età tende a diventare ellittico, ieratico e meditabondo; Wesley è un uomo che si è formato facendo ballare il suo pubblico, la sua “missione” è sempre stata quella di trasmettere energia e forza vitale attraverso ritmi indiavolati e iper energetici. Ci riesce ancora benissimo. Certo nel suo approccio allo strumento c’è molto “mestiere”, niente è lasciato al caso. L’esibizione è perfettamente calibrata e studiata per far divertire senza un attimo di tregua.
I musicisti del trombonista sono vecchi lupi di mare, anagraficamente più giovani di lui, ma con denti aguzzi e affilatissimi, tutti veterani di mille “battaglie” sui palcoscenici del mondo al seguito di artisti stellari che li hanno formati e fatti crescere.
Sanno capire, interpretare e assecondare ogni minima variazione o inflessione del loro leader, non hanno nemmeno più il bisogno di “obbedirgli”; tutti insieme sono una “macchina” da musica in cui tutto funziona perfettamente e all’unisono, il loro padre spirituale James Brown avrebbe detto: “ Like a Sex machine, man, (yeah go ahead) Movin’ and doin’ it, you know, Can I count it off? (Go ahead) One, two, three, four!”
Naturalmente, lo spirito del “Godfather James Brown” ha aleggiato per tutta l’esibizione fino a che l’indiavolata band non ha intonato la fantastica “Gimmie Some More” che uscì nel 1971 nell’album “James Brown’s Funky People” che il Godfather of soul produsse, scrisse e arrangiò per i musicisti che facevano parte della sua “Revue”: Maceo Parker, Lyn Collins e molti altri.
Molto divertente il siparietto messo in scena dall’artista col suo brano “Bop to the Boogie” in cui ha convinto il pubblico ad intonare una sorta di scioglilingua.
Non poteva mancare anche il momento con la ballad suadente e morbida dedicata alla metropoli americana degli angeli “In love with L.A.”
Esplosiva l’interpretazione del classico “Doing it to Death” disco d’oro e record di vendite della band (un milione di copie nei primi anni ’70). Wesley ha ricordato in musica anche la sua lunghissima collaborazione con George Clinton, anche lui splendido ottantenne, e i suoi Parliament Funkadelic che ha fruttato un’incisione proprio quest’anno, tanto per ribadire che l’attività e il talento del trombonista sono tutt’altro che sopiti.
Il brano “Trick Bag” ha fatto vibrare il pubblico con il rhythm blues di Earl King, grandissimo chitarrista e compositore di New Orleans, purtroppo un po’ dimenticato nel nostro paese.
Quella di “Breakin’Bread” è stata una proposta davvero insolita soprattutto per lo stereotipo che abbiamo della musica funky, tutta sesso, occhialoni e pantaloni a zampa d’elefante. Nel 1974 Fred Wesley & the New J.B’s pubblicarono il brano come singolo di enorme successo. Il groove era davvero trascinante con i suoi ritmi “molleggiati” e rallentati e la voce ironica e recitante in dialogo con gli strumenti e con i musicisti che parlano, ridono e commentano le provocazioni del leader. Un’ altra interessante variazione sul classico tema “Call and response”.
A colpire gli ascoltatori più attenti è stato però il testo in cui Fred Wesley parla di se e di un suo ritorno al sud da New York per visitare la sua vecchia mamma e i suoi familiari. Nel ricordo in forma di canzone, la “Mamy” come benvenuto gli cucina il cibo tradizionale povero dell’Alabama e di tutta la “confederazione”.
Il testo della canzone non ha proprio nulla di trasgressivo ma riporta la ricetta del pane fritto, racconta della mamma che lo cucina e della famiglia che si stringe attorno al tavolo per spezzare o meglio condividere il pane in letizia.
She said: “Sit down son, I know what you like. I’m gonna fry us up some funky bread tonight”…The kind of bread she made was called Hoe cake Bread (and it’s extra greasy, on a wood stove, in a big ol’skillet).
Il resto della canzone descrive ancora più nei dettagli la scenetta familiare che sembra in netto contrasto con l’idea delle ballerine sulla pista da ballo e dei ritmi ipnotici che ci siamo fatti del funky.
A ristabilire l’atmosfera fiammeggiante e torrida ci ha pensato l’esecuzione di un’infuocata versione di “Funky Good Time (Doing it to Death)” che maliziosamente suggerisce di divertirsi “facendolo” fino a morire di piacere. Vista l’età che Wesley ha raggiunto in perfetta arte e salute deve fare proprio bene.
Dopo essersi spellato letteralmente le mani con interminabili applausi, il pubblico ha lasciato la sala “danzando” leggero più felice che mai per essere restituito ad una calda serena notte estiva in cui il cielo sembrava Blues.
© Flaviano Bosco – instArt 2023