Nella sobria, accogliente sala del ridotto del teatro Verdi di Pordenone è andato in scena uno degli eventi teatrali della stagione. E’ sempre una grande, straniante emozione assistere ad ogni nuova produzione del Teatro delle Albe di Ermanna Montanari e Marco Martinelli che da decenni (1983) riescono ad unire il massimo dell’innovazione in ambito teatrale e performativo con la più antica tradizione italiana che ha le sue più profonde origini nella tradizione folklorica delle lingue e delle parlate dell’italiano.
Montanari con la sua voce sciamanica, e Martinelli con la sua aspra visionarietà danno vita questa volta ad un dramma contadino, tra dialetto romagnolo e volgare illustre, dal titolo “Madre” che si trasforma ben presto in una riflessione sulla drammaticità dell’esistenza di ognuno di noi.
La trama è presto detta: nelle campagne della bassa padana si assiste al surreale, drammatico dialogo tra una madre che è caduta in un pozzo e il figlio in superficie e che finge di ingegnarsi a farla risalire. I due personaggi vivono entrambi attraverso la straniante voce di Montanari che non ha assolutamente rivali. Ad evocare immagini e suoni, non necessariamente in quest’ordine contribuiscono i disegni su sabbia di Stefano Ricci e le dilaniate vibrazioni delle corde del contrabbasso di Daniele Roccato.
In una meravigliosa sequenza de “La voce della Luna” di Federico Fellini, un romantico poveraccio girovaga nelle campagne della bassa bolognese, guidato dalle voci che sente venire dai pozzi alla ricerca della sua donna ideale che poi si scopre essere la luna che “altre di più belle non ce n’è”.
Platone ci dice che Talete, mentre studiava gli astri e guardava in alto, cadde in un pozzo. Una graziosa e intelligente servetta trace lo prese in giro, dicendogli che si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno in cielo, ma non vedeva quelle che gli stavano davanti, tra i piedi. La stessa ironia è riservata a chi passa il tempo a filosofare (…) provoca il riso non solo delle schiave di Tracia, ma anche del resto della gente cadendo, per inesperienza, nei pozzi e in ogni difficoltà.”
Non solo la filosofia, ma anche la letteratura europea pullula di riferimenti e di metafore relativi al pozzo: da Andreuccio di Perugia di una novella di Boccaccio fino al dramma mediatico di Vermicino. Il tortuoso percorso in vertiginoso declivio è lo stesso che parte dalla “Discesa agli inferi di Inanna e poi Istar” dei Sumeri e dei Babilonesi, che diventa la Catabasi dei greci per trasformarsi ancora nel “Descensus Christi ad inferos” che anche Dante racconta nella Commedia e che è diventato il più prosaico “Viaggio al centro della terra” di Giulio Verne nei nostri tempi secolarizzati e senza più fantasia o ebrezza di vertigine.
S’intitola “Song from the Bottom of a Well” uno dei brani più straordinari di Kevin Ayers (1944-2013) contenuto nell’album altrettanto importante noto come “Whatevershebringswesing” (1972) lo utilizzeremo come suggestione e forse come chiave eterodossa ed eccentrica per decifrare la messa in scena di uno degli spettacoli più intriganti, misteriosi ed esoterici nel vero senso del termine che si sia visto sui palcoscenici del nostro paese. Come sempre, quella proposta dal Teatro delle Albe anche questa volta è un’esperienza teatrale totale che, proprio perché tale, va vissuta, esperita, agita in teatro ed è refrattaria a qualunque racconto diretto. Si perdoneranno perciò le digressioni che non sono causate dalla distrazione dello scrivente, ma dall’impossibilità di dire qualcosa che si può solo “sentire” e poi se non ci si vuole proprio gettare attorno ad un pozzo ci si può solo girare.
This is a song from the bottom of a well
There are things down here
I’ve got to try and tell
It’s dark and light at the very same time.
The water sometimes seems like wine
La rappresentazione appare fin da subito come il risultato di una travagliata alchimia di tre linguaggi, un intreccio di tre fili magici: voce , disegno, contrabbasso
Madre e figlio contadini romagnoli, lei caduta in un pozzo, lui rimasto fuori medita se salvarla o meno.
E’ un gioco simbolico che ogni spettatore può interpretare, così dice lo stesso Marco Martinelli da vero istrione, nel presentare la prima pordenonese dello spettacolo.
L’idea di questo bizzarro dramma per disegni, terra, musica e laringe, gli è venuta durante il famigerato lockdown riflettendo, in perfetta solitudine, sulla Madre Terra e la civiltà urbana che le si contrappone.
Evocando le seduzioni della lingua romagnola di carne e di terra impastata il suono della linguaggi Martinelli allude al dialetto di Pordenone dimenticando Pasolini, ma è stato probabilmente solo un lapsus.
Godendo di quell’attimo sublime di sospensione del silenzio del pubblico. Si abbassano le luci in sala e il contrabbasso comincia a farsi sentire suonato ad archetto e pizzicato, ma subito accorre un piccolo problema tecnico video con le proiezioni sul fondo dei disegni di Ricci che non si vedono. Martinelli ferma lo spettacolo mentre il tecnico di sala con il suo barbone da hipster si affanna tra “palco e realtà” per rimediare al più presto. “Ci è’ già successo a Trento” dice Martinelli che riprende la parola per dar tempo ai tecnici di risolvere l’inghippo.
Racconta allora che il teatro delle Albe stava preparando una pièce di Heiner Muller sul trauma (Traumtext), un vero incubo, un sogno di morte di un padre con una bambina sulle spalle. Ma c’era già l’incubo della pandemia e la compagnia chiese a Martinelli un testo pieno di speranza con una luce che l’autore si è infine sforzato di evocare.
L’imprevisto è sembrato un preludio allo spettacolo stesso, nel quale è andata in scena tutta la compagnia al completo: dal drammaturgo agli attori, dal fonico all’attrezzista, dal musicista fino al tecnico delle luci. Martinelli oltre che autore si è rivelato ancora una volta splendido intrattenitore, istrionico ed entusiasta tanto da fare perfino la claque al suo stesso spettacolo tra il pubblico al momento debito.
Finalmente dopo che il video aveva ripreso a funzionare, lo spettacolo è potuto continuare nella sua forma più completa.
Disegno e suono sui quali si è imposta, mano a mano la voce che sembrava scrivere, il gesso suonare e il contrabbasso scolpirr il tempo, sono davvero tre voci che s’intersecano. Una figura nell’erba, uno strano mugugno piagnucoloso, vocalizzi che sono narrazione di per se, come un sordo lamento. E’ la madre in fondo al pozzo che non sa venire fuori o forse non vuole?
I learned some information
way down here
That might fill your heart
and soul with fear;
But don’t you worry, no
don’t be afraid
I’m not in the magical
mystery trade.
Quella solitudine e quella profondità forse permettono alla madre un’altra prospettiva. Dal fondo di quell’oscurità profonda si può vedere la volta stellata mentre da fuori la luce ci acceca facendoci percepire solamente le nostre miserie.
Dice il figlio: “Madre ma cosa ci fai laggiù? Ma quando è successo? Ma cosa ci sarà mai da vedere laggiù? Ed è una domanda che potrebbe farsi ognuno di noi. Se ci pensiamo un po’ è difficile capire come ci sono successe le cose nelle quali ci troviamo immersi o meglio come sono occorse. E l’unica risposta che riusciamo a trovare è quella che si salmodia in una vecchia canzone: “Ciò che deve accadere, accade”
Nel dramma il figlio rimprovera aspramente la madre per essere caduta. Non può andare nemmeno a cercare aiuto perché nei campi ci lavorano ormai solo i polacchi e di quelli dell’Est c’è poco da fidarsi. Per tirarla fuori ci vogliono degli attrezzi poderosi. Il contrabbasso suona musica di Bach mentre la mamma dice di vedere una biscia dagli occhi di rubino, la coda d’oro e una catena di perle al collo…”Mamma ma sei pazza?
Gli spettatori immaginano tutto questo nell’esatto momento nel quale si diffondono i suoni, appaiono i disegni e contemporaneamente echeggia la straordinaria forza di Montanari. La performer è abitata da una legione di voci che corrispondono ad un groviglio di sensazioni… quella che si è vista non è stata una “semplice” rappresentazione, è stata un’esperienza sensoriale su più livelli, un’epifania del cuore.
My immagination begins to purr
As things don’t appen,
they just occur.
Softly crackling electrical smell,
There’s something burning
at the bottom of this well.
Il teatro italiano ha nella rappresentazione “dolorosa” del rapporto tra madre e figlio, la propria origine e forse anche il proprio fine. La Mater dolorosa che piange il proprio figlio inchiodato sulla croce, è un assoluto topos drammaturgico, momento fondamentale delle celebrazioni della passione di Cristo che gli storici del teatro identificano come scaturigine della rinascita del teatro in Occidente dopo il naufragio dell’impero romano. Le immagini che vengono subito alla mente sono le Pietà di Michelangelo e la sequenza in cui Susanna Colussi/Maria nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini piange il proprio figlio assassinato con tutte le possibili e volute metafore e riferimenti del caso.
Il testo di Martinelli rovescia solo apparentemente questa dualità così feconda. Il pozzo, a livello simbolico, è facilmente assimilabile all’utero femminile con il suo mistero d’insondabile profonda, oscurità. Nella cosmogonia del greco Ferecide Zas celeste si unisce con Ctonie sotterranea secondo i riti nuziali arcaici, come scrive Giorgio Colli: “Ctonie si toglie il velo e Zas la riveste con il mantello che lui stesso ha ricamato… Ma con il mantello Zas ricopre colei che si è spogliata: denudandosi la sotterranea ha mostrato le sue profondità. E si ricordi che in greco il risultato del “disvelamento” si dice aletheia “verità”. E’ la verità, dunque l’abissale, la nudità di Ctonie, che non possono mostrarsi”.
E’ un’altra incarnazione del principio della Grande Madre, quella che la banalità della modernità ha finito per indicare con il concetto di Natura che è soprattutto forza generatrice, energia vitale cui molto spesso la civilizzazione non fa che opporsi con la propria volontà di razionalizzazione, sfruttamento e insensata dinamica di produzione e consumo.
La riflessione di Martinelli ha voluto tener conto proprio di tutto questo, a partire da una suggestione dovuta al lockdown, come dicevamo più sopra. Ce lo ricordiamo tutti, dopo poche settimane nelle quali il sistema di produzione, con le sue macchine e i suoi fumi, aveva dovuto giocoforza essere bloccato, la natura già cominciava a riguadagnare gli spazi che l’urbanizzazione gli aveva sottratto. Le inquietanti immagini riprese dalla videosorveglianza e diventate virali degli animali selvatici che si aggiravano per le strade vuote delle nostre città riappropriandosi di quei luoghi momentaneamente abbandonati, ha fatto pensare a più di qualcuno alla nostra transitorietà e all’aleatorietà del nostro vivere.
Ermanna Montanari, in questa e altre occasioni, ha dimostrato di saper incarnare e dare voce non solo il mistero del femminile (Madre terra), ma di evocare anche i grandi arcani senza nome che sono l’angoscia e la solitudine che ci abitano.
Sitting here alone I just have to laugh
I see all the universe as confortable bath;
I drow my body so my mind is free
To indulge in plesurable fantasies.
Non serve citare Nietzsche per riconoscere che mentre guardiamo nell’Abisso, l’oscura voragine guarda in noi. Le straordinarie intuizioni del teatro delle Albe unendo le eccezionali doti di Montanari a quelle degli altri due artisti performativi, sono riuscite nell’impossibile impresa di coniugare, esprimere e far percepire la paradossalità della figura archetipica della Madre che è al medesimo tempo sorgente della vita e sepolcro, madre e matrigna, orsa e cagna in un’inestricabile, infinita teoria di rimandi e simbologie. I disegni materici e immaginativi di Ricci grazie alle astrazioni ritmiche di Roccato hanno fatto il resto, animando e facendo prendere vita fantasmaticamente nel paesaggio emozionale della sala. Nemmeno i tantissimi applausi sono bastati ad esprimere tutta la gioia e la gratitudine del pubblico.
There’s something strange going on down here
Asickening implosion of mistrust and fear.
A vast corruption that’s about to boil
A mixture of greed and the smell of oil
This is a song from the bottom of a well
I dind’t move here, I just fell.
But I’m not complaining, I don’t even care
Cause if I’m not here, then it’s not there.
© Flaviano Bosco – instArt 2023