La rassegna tra cultura e musica Biblioteca in jazz, arrivata alla IV edizione, si è trasformata da ritrovo di carbonari con spettacoli semiabusivi sul marciapiede di via Battistig sul filo della legalità e del decoro come dicono i benpensanti, in un appuntamento fisso per l’estate udinese apprezzato e ricercato.
L’idea che l’associazione Time for Africa si era fatta venire insieme al direttore artistico Simone Serafini era quella di ravvivare con la musica e momenti di riflessione il tanto vituperato quartiere di Borgo stazione che i politicanti e i media utilizzano a Udine per tenere alta nella cittadinanza la percezione del pericolo, così da agevolare isterismi elettorali e misure straordinarie per l’ordine pubblico. Ogni discussione animata tra ubriachi, per i media, diventa in quel quartiere “rissa tra degenerati” che suscita angoscia e paure inimmaginabili tra i probi e onesti cittadini.
In ordine di tempo, l’ultima grande pensata dell’amministrazione comunale per risolvere la situazione è stata quella di sradicare le siepi e tagliare gli alberi che ornavano un lato di viale Leopardi adducendo la puerile scusa che servivano da ricettacolo e nascondiglio per la droga, dimenticandosi del posto di polizia che praticamente gli sta davanti.
Time for Africa, in collaborazione con lo Studi 35 di viale Percoto, ha voluto costruire anche quest’anno un piacevole spazio di confronto e di socialità con musicisti di grande prestigio del territorio e qualche riflessione sull’attualità tra cronaca e politica. Proprio per questo si è pensato fin dalla prima edizione di far precedere i concerti da “Pillole di Jazz”, brevi divagazioni nella storia della musica afro-americana senza mai perdere di vista l’orizzonte contemporaneo. Nelle righe che seguono si darà conto dei quattro concerti e di alcuni degli interventi iniziali con l’unico intento di rievocare alcune sensazioni ai presenti e di ingolosire gli eventuali interessati alle prossime edizioni.
Nel primo appuntamento della rassegna, preceduto da un vero e proprio fortunale abbattutosi su Udine che però ha lasciato il posto ad un bellissimo arcobaleno almeno nei cuori, per ricordare in qualche modo il centenario di Franco Basaglia si sono volute dare alcune suggestioni tra follia e jazz.
Basaglia adorava il Jazz soprattutto quello dell’Avant garde di John Coltrane e Ornette Coleman e anche in questo esprimeva la sua personalità geniale che traguardava il futuro.
E’ ben noto però quanto la psichiatria più tradizionale, contro cui lui si batteva, sia stata usata come metodo repressivo nei confronti di quegli elementi della società cosiddetti non omologabili, marginali, bizzarri, troppo geniali e selvatici per rientrare nelle gabbie nelle quali la società borghese vuole confinare tutti coloro che risultano eccentrici.
Non sembri uno stereotipo ma l’autentico musicista jazz, oggi come nell’America degli anni ’30, si contraddistingue per definizione come un elemento eccentrico e fuori dagli schemi non tanto per il suo aspetto o per i suoi modi, ma per la carica rivoluzionaria che ha sempre il suo messaggio musicale. Il jazz, così come suo padre il blues e la musica afro-americana in generale, sono stati originati dalle sofferenze degli schiavi e degli elementi di volta in volta più discriminati del continente americano (creoli, italiani, irlandesi, ebrei, ecc.), quelli che molto spesso sono stati considerati folli solo perchè con la loro arte facevano e fanno emergere le ipocrisie di una società che vende sogni e contrabbanda illusioni solamente a chi ha il portafoglio già gonfio e se li può permettere, escludendo tutti gli altri. La follia del jazz è sempre stata ritenuta pericolosa perchè rappresenta una via d’uscita al conformismo, vero motore del capitalismo e del potere che ne consegue.
Non si contano perciò tra i grandi maestri del genere internamenti, trattamenti contenitivi, terapie farmacologiche invasive e distruttivi elettroshock che si sommavano a tossicodipendenze spesso conseguenza di disturbi psichici già presenti. Solo per fare un breve elenco: Charlie Parker, Bud Powell, Thelonious Monk, Charlie Mingus, Billie Holliday, Albert Ayler, Nina Simone.
The Flams: Mosè Andrich (piano e synth) Paolo Jus (basso) Francesco Bressan (batteria)
Il trio di giovani musicisti è nato da un contatto sui social e al conservatorio di Trieste, la loro formazione è decisamente jazzistica, ma la loro volontà è quella di esplorare anche i sentieri del pop. Non è certo una cosa nuova e nemmeno assolutamente originale, ma questo conta davvero poco. Quello che è davvero interessante del loro progetto musicale è la freschezza, la sensibilità e il talento che ci mettono. Come dicono loro: “senza alcun pregiudizio prendiamo i brani che ci piacciono e ci “impazziamo” un po’ sopra guidati dal piacere e dall’estro”.
Sono autori per ora di un album “Road to point Nemo” le cui tracce sono state la colonna portante dell’esibizione per Biblioteca in Jazz, unite ad alcune non estemporanee e piacevoli improvvisazioni.
Il titolo del loro album evoca il punto oceanico più lontano dalle terre emerse, Point Nemo nel cuore dell’Oceano Pacifico meridionale dista almeno 2700 km dall’isola più vicina. Potrebbe sembrare il luogo più solitario e inaccessibile del nostro pianeta e per molti aspetti lo è davvero, ma è anche l’area dove vengono fatti precipitare i satelliti in disuso e gli altri rottami spaziali. Il fondale di Point Nemo ospita quindi le carcasse della nostra tecnologia spaziale adagiati a 2,5 km di profondità, un’atmosfera da fantascienza distopica alla P.K. Dick.
Il brano di John Maier “Gravity” sul quale il trio ha improvvisato una splendida, morbida suite, sembra avere il titolo giusto al contesto e, anche se parla di una storia d’amore, si riferisce a qualcosa che prima o poi, per quanto facciamo, è destinata a schiantarsi e precipitare negli abissi.
E’ uno stile molto dolce che ha il suo punto di equilibrio nelle armonie tessute tra il basso a sei corde dolcissimo e vellutato, tutto cantato e chitarristico e le intersezioni del pianoforte. Disegnano e compongono melodie in punta di matita e dai colori pastello, sussurrate e morbide, ritmate spesso dalle bacchette felpate delle percussioni mentre, soave e leggero, il piano trasporta verso spazi aperti di un verde smeraldo come la nostalgia.
Un altro aneddoto che riguarda l’esecuzione proprio di “Gravity” riguarda il pianista che è pericolosamente amante dei lavori in legno e che qualche giorno prima stava per giocarsi una falange con una lama. Visto lo strumento che suona, sarebbe forse meglio dedicarsi alla pittura, altrimenti il suo futuro al piano sarà quello delle composizioni per una mano sola. Nonostante la ferita, di comune accordo, hanno comunque deciso di suonare il brano all’impronta la sera prima del concerto. Anche questo fa parte dell’idea fondante del gruppo, una gran bella idea. Fare le cose semplici e in qualunque condizione è l’impegno più difficile, suoni dal colore chiaro e dal gusto pulito eppure ugualmente inebrianti come si diceva di quel famoso scotch whiskey della pubblicità di una volta. E’ stata una vera delizia sentire il basso arpeggiare, per tutto il concerto, senza eccessivi artifici e con un virtuosismo mai ostentato anzi pacato e quasi sommesso. Un pugno di brani raffinati ed estesi sono bastati al trio per far intuire l’enorme potenziale della propria proposta musicale che, ne siamo certi, ha ancora molto da dare e da far ascoltare.
Prova ne è stato l’ultimo brano in scaletta, una rielaborazione di “Every breath you take” così raffinata e smoot da non sembrare nemmeno una cover, neanche Steward Copland nelle sue rielaborazioni di “Police deranged” avrebbe saputo fare di meglio.
Nel secondo incontro della rassegna si è ricordato uno splendido podcast di Radio Tre, “Dalla terra alla storia – avventure dell’archeologia” di Andrea Augenti che ha dedicato alcune sue preziose puntate ad una disciplina storico-scientifica molto recente e del tutto particolare: “l’Archeologia della schiavitù”.
A partire dagli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo, negli ultimi decenni si è cominciato a ricostruire dettagliatamente la storia della tratta atlantica degli schiavi africani e delle loro condizioni di vita durante i secoli della schiavitù. Il ritrovamento e lo studio di migliaia di documenti e di oggetti di cui l’archeologia non si era mai occupata prima ha permesso di dettagliare quelle esistenze facendo emergere particolari del tutto inediti in grado di spazzar via pregiudizi e stereotipi tra i più velenosi.
Nella puntata intitolata “Black Live Matters” si racconta che nel maggio 1991 vicino alle torri gemelle al numero di Broadway 290, durante lavori di scavo, emersero 419 casse da morto di legno senza nome di quello che era stato un cimitero semiclandestino dei neri americani dal 1650 al 1794. L’analisi dei resti umani e lo scavo scientifico hanno permesso di acquisire informazioni su caratteristiche fisiche, condizioni di vita, alimentazione, malattie, caratteristiche genetiche e molto altro. Costretti a vivere in condizioni aberranti, gli schiavi erano riusciti a conservare riti e tradizioni funerarie prettamente africane che sono evidenti proprio in quella necropoli newyorkese. Alcuni divieti cittadini che normavano i funerali degli schiavi provano che questi intonavano canti e balli ritenuti sconvenienti e pericolosi durante le cerimonie. La musica propriamente afro-americana ha la sua prima attestazione proprio in quei divieti.
Alcuni contratti di compravendita del 1626 testimoniano dei primi 16 schiavi arrivati dall’Africa in quella che allora si chiamava New Amsterdam oggi New York. E’ verosimile che alcuni di loro siano stati seppelliti in quel cimitero di Manhattan. Si stima che, nel corso di tre secoli, nell’Atlantico ci siano stati almeno 40.000 viaggi di navi negriere che trasportarono la loro merce umana. Anche l’Europa di oggi si regge sulla manodopera schiavile garantita dai milioni di migranti disposti a qualunque sacrificio pur di sopravvivere.
I dati ci dicono che sono circa 40.000 le imbarcazioni che negli ultimi dieci anni hanno trasportato tutta quell’umanità migrante e prostrata salpata dal nord Africa sulle nostre coste; moltissime di queste hanno fatto naufragio, anche perchè non sono state colpevolmente soccorse.
Il loro cimitero è in fondo al mare e gli archeologi del futuro potranno farsi un’idea di quanto meschini e ipocriti siano stati i nostri proclami sugli sbandierati valori di libertà, giustizia e solidarietà.
Hop Scop Trio: Daniele D’Agaro (clarinetto) Juri Dal Dan (piano) Maurizio Pagnutti (batteria)
L’interessante proposta musicale del trio di D’Agaro rivisita con accuratezza quasi filologica ma senza pedanterie il repertorio swing dell’età dell’oro del jazz (Duke Ellington, Fats Waller, Benny Goodman e altri) senza dimenticare mai che in origine era principalmente musica da ballo e non da ascolto seduto in qualche teatro.
Erano suoni e ritmi concepiti ed eseguiti per far muovere i piedi e ancheggiare i bacini. Questo non vuol dire che fosse musica scontata o banalmente commerciale, tutt’altro, non bisogna intenderla però come un esercizio accademico pensato per esprimere chissà quali messaggi. La gioia e la felicità di una sala da ballo con un’orchestra che suona è di per se un valore.
Nello Spazio 35 di Udine si è potuto sentire l’incredibile suono della batteria originale del 1930 in pelle naturale di Pagnutti che sa trasmettere ancora straordinarie emozioni grazie al talento del percussionista. La batteria “naturale” ha veramente un suono profondo e caldo molto diverso dalla legnosità artificiale rigida e metallica che hanno gli strumenti di oggi, è evidente soprattutto quando perquote le pelli con le bacchette felpate.
Stupendo il battere delle bacchette sui bordi metallici della batteria e sulle coconuts, è proprio quello il suono di un’epoca intera e chi ha detto che lo swing è una cosa del passato si sbaglia di grosso, il suo splendore e il suo gioioso luccichio ci precedono nel futuro. E’ questa la vera eleganza? La risposta è decisamente affermativa.
Il clarinetto soprano di D’Agaro ha un suono che è una delizia di morbidezza e di forza allo stesso tempo. Il musicista sa divertire con un fraseggio mai scomposto e nemmeno troppo scontato. Sa benissimo che certe melodie nello swing, se eseguite in modo approssimativo, hanno immediatamente uno sgradito effetto da circo equestre, per questo il suo stile sobrio riesce a mettere nella giusta luce la bellezza di quelle composizioni.
D’Agaro ha la grande delicatezza di non strafare con il suo strumento e risparmia al suo pubblico le pose da jazzman decerebrato e piacione alla Renzo Arbore. Questo non vuol dire che la sua musica non sia divertente, ma si può ridere senza sghignazzare e si può suonare anche la musica più svagata senza starnazzare. Per questo i suoi suoni risultano particolarmente piacevoli e dolci nelle ballad struggenti e dai toni setosi e preziosi, così come appaiono brillanti nella musica più danzereccia e ballerina.
La formazione piano, batteria e clarinetto senza contrabbasso, in quegli anni, era la combo più semplice e duttile. Funziona ancora egregiamente, diverte ed è talmente anacronistica da risultare esotica.
Al pianoforte Juri Dal Dan, sostituto di lusso dell’ottimo Scaramella assente per un problema di salute, “pensa mentre suona, anzi attraverso i suoni pensa” e non ci potrebbe essere complimento migliore per uno dei compositori più estrosi e allo stesso tempo riflessivi del panorama pianistico italiano.
Dal Dan suona in punta di piedi senza nemmeno l’ombra della protervia di coloro che credono che per interpretare lo spirito dell’età del jazz sia sempre necessario sghignazzare, scalciare e fare i versi. Lo “stile Jungle”, per esempio, viene purtroppo interpretato dai più come una cosa da selvaggi africani con la sveglia al collo e il gonnellino di banane, mentre naturalmente è tutt’altro.
Il trio, al contrario, ha il coraggio di suonare anche gli standard più noti, ad un ritmo relativamente più lento, sempre gioioso, brioso e swingato, ma senza parossismi ed effetti caricaturali.
Un paragone possibile, anche se impietoso, riguarda tutte quelle persone, sedicenti cinefili d’antan compresi, che pensavano che le comiche del cinema muto andassero proiettate a grande velocità, perchè concepite per far ridere attraverso movimenti meccanici e a scatti dei personaggi che così apparivano forsennati e bizzarri.
In realtà, non era per nulla così. Proiettando quelle pellicole alla giusta velocità si gusta ancora di più la bellezza delle immagini e il divertimento delle situazioni e Juri Dal Dan queste cose le sa bene, basta ascoltare le sue meravigliose composizioni per i film sonorizzati dalla Zerorchestra delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone.
Il jazz è convergenza culturale e identitaria di genti migrate, per necessità o per forza, ma può essere molte altre cose. E’ sempre in movimento, si ritiene che il nome stesso del genere provenga dalla storpiatura di un termine francese che significava in origine: Felicità e animazione. Nella “Swing era” degli anni ’30, tutti lo ballavano freneticamente e se lo “bevevano” come il Moonshine del proibizionismo. Ai musicisti richiede grande preparazione, flessibilità e spontaneità.
Proprio come nel brano China Boy di Count Basie eseguito dal trio bello agitato a ritmo di marcetta, e “quando ci vuole, ci vuole” anche la velocità piace come sfrecciare su una decappottabile d’epoca magari una torpedo blu lanciata a palla di cannone; oppure in Honeysuckel rose di Fats Waller, ricco prezioso e gustoso e ancora in quello che ha chiuso l’esibizione: grafomane Misterious Chick di Duke Ellington del1938 molto molto speciale, da scarpe verniciate che scivolano e scricchiolano sul palquet, mentre “il ventilatore ronza immenso dal soffitto esausto” proprio come dice Paolo Conte.
(continua)
Flaviano Bosco / instArt 2024 ©