Tra i canali e i canneti della laguna di Marano ha il proprio covo una ciurma di filibustieri che navigano i mari dell’anarchia con le “bastarde” navi di una musica del tutto non convenzionale e informale, decisamente in direzione ostinata e contraria come diceva quel signore.

La formazione degli Autostoppisti comprende caratteri e personalità tra i più diversi ed eterogenei. Trovano una sorta di comune denominatore nella devozione a Nostra Signora della Dinamite le cui deflagrazioni siglano i pentagrammi dell’assurdo.

La loro discografia copre ormai quattro incisioni che rappresentano quanto di meglio la creatività nostrana ha saputo regalarci negli ultimi anni.

Gli Autostoppisti musicalmente indefinibili, dopo aver percorso i sentieri e le distanze di Bruce Chatwin (Sovrapposizione di antropologia e zootecnia), scarificato le piaghe della pestilenza celebrativa del centenario pasoliniano (Pasolini e la peste) e sbeffeggiato le attuali guerre coloniali d’occidente (Erasmus a Kiev), con l’ultimo “Narci Scisma” sembrano volersi spingere ancor più avanti nella disintegrazione del canone musicale contemporaneo rinnegando perfino se stessi, in una sarabanda furibonda di contaminazioni e intersezioni tra Noise, Funky e Non sense ruvidi e blues dinamitardi.

Per poter dire qualcosa di efficace contro un sistema che ci ha incatenati all’analfabetismo funzionale condizionando i nostri gusti e sentimenti ad un algoritmo pawloviano, non c’è altra via che l’autocontraddizione, lo sberleffo e l’ironia acida di chi sa e osa perdere, facendo implodere certezze e prospettive.

Il lavoro degli Autostoppisti è tutt’altro che caotico e casuale, come potrebbe pensare l’ascoltatore che si fermi alla superficie delle forme sonore con le quali si presenta. Coloro che, invece, non si accontentano ed evadono dalla propria borghese zona di comfort, diradata la nebbia della congruente armonia a tutti i costi, si trovano a percorrere le architetture piranesiane di un lavoro volutamente disturbante che non vuole blandirci o anestetizzarci con le sue carezze, ma che ci vuole svegli e possibilmente rabbiosi di fronte allo squallore del quotidiano.

Le ficcanti note di copertina dell’album a cura dell’ottimo Giovanni Fierro tentano di definire il rumoroso flusso di in-coscienza catturato dall’incisione come magma sonoro di un presente in ebollizione, superata la temperatura d’allerta la nostra società sta evaporando”. Non potrebbe esserci definizione migliore di questa, per indicare e tracciare i margini di una rappresentazione artistica che programmaticamente recide ogni nesso causale nelle cacofonie di una musica d’improvvisazione completamente no-form screziata d’elettronica malata e suppurata da voci che a volte sembrano venire dal fondo di un armadio in cantina, quello in cui non si guarda mai ma che contiene i tesori più preziosi e strani.

Visto che gli Autostoppisti, come autentici “barbudos”, agiscono fuori da ogni confine canonico è del tutto inutile recensire i loro lavori in modo classico e tanto meno accademico. Per questo motivo si è voluto divagare a partire da alcune suggestioni presenti nel sismogramma della loro ultima incisione.

La prima è di certo quella che in qualche modo ci connette con la fantascienza delle distopie che nel passato hanno preconizzato il nostro surreale tragico presente. Il pensiero corre subito a “Il mondo Nuovo” di Aldous Huxley, che scrive:

Il governo dei manganelli e dei plotoni di esecuzione, della carestia artificiale, dell’imprigionamento in massa e della deportazione di massa, non solo è inumano (nessuno se ne preoccupa più di tanto ai giorni nostri), ma è palesemente inefficiente, e in un’epoca di tecnologia avanzata l’inefficienza è un peccato mortale. Uno Stato totalitario davvero efficiente sarebbe quello in cui l’onnipotente potere esecutivo dei capi politici e il loro corpo manageriale controllano una popolazione di schiavi che non devono essere costretti ad esserlo con la forza perchè amano la loro schiavitù”

Nemmeno Huxley sarebbe riuscito ad immaginare quanto inconscio piacere ci provochi la nostra masochistica condizione di servi del Capitale, ma bisogna proprio riconoscergli una vista molto lunga nell’aver preconizzato una società, esattamente identica alla nostra, nella quale la “soma”, una potente droga sintetica, avrebbe eliminato completamente qualunque forma di sofferenza, con tutte le conseguenze del caso.

Oggi, a meno di un secolo dalla pubblicazione del suo romanzo, l’occidente capitalista seda i propri sensi di colpa e le proprie frustrazioni con tonnellate di psicofarmaci. Il caso del Fentanyl e la “crisi degli oppioidi” negli Stati Uniti (1990 – presente) con più di un milione di morti per overdose e decine di milioni di tossicodipendenti è davvero paradigmatica; così come lo è nella sua paradossalità, la storia iperreale della famiglia Sackler “la più malvagia d’America” e della sua multinazionale Purdue Pharma e dell’OxyContin.

Non basta tutta l’arte del mondo a rappresentare tutto questo schifo, non è più il tempo dell’eroina di Lou Reed e dei Velvet Underground: “Cause it makes me feel like I’m a man when I put a spike into my vein then I tell you things aren’t quite the same when I’m rushing on my run”; ora bisogna bestemmiare la società con la musica e con i versi senza alcuna forma di romanticheria ossidente ed è proprio in questo che gli Autostoppisti mostrano la loro scorza di allucinati poeti delle sterminate paludi del possibile.

Prendiamoci ora un piccolo spazio per dar conto sempre in maniera eccentrica e non ordinaria di ognuna delle tracce presenti nell’album.

White Cat Happening revolution: quadri d’assalto, cromatismo, una canzonaccia d’osteria sostiene uno sragionamento sullo stato dell’arte plastica. Che ne è della prospettiva e della proporzione in un paesaggio arso dal fosforo bianco con neonati fatti a pezzi dai droni e poi carbonizzati; che ne è del dandysmo e dell’astrazione nel Kurdistan iraqueno.

Il Peyote è una benzodiazepina naturale: l’inferno interinale e gli assoli controculturali. Funky disintegrato che addita il gioco del privilegio borghese che anestetizza, con le sostanze psicotrope, ciò che non fagocita o defeca immediatamente. La tossicodipendenza, l’assuefazione e lo stordimento da ansiolitici sono la cifra del nostro tempo.

Beat Vipassana Porno jazzisti che s’inerpicano sul vacuo, sonorità acide e vischiose che si agglutinano in una geremiade non sense con scariche elettrostatiche. A vedere le cose in profondità come realmente sono non s’impara vivendo e nemmeno in fila al banco degli affettati di un supermercato.

Amisulpride Overdrive. Il basso da il ritmo alle distorsioni/dissoluzioni di un oscilloscopio suoni e situazionismi tribalistici e afro futuristi. Il tessuto sonoro è schizoide e bordeggia le voragini della disistima e le depressioni caspiche dell’annullamento del se. La Ruminazione è un indicatore di benessere nei bovini al pascolo mentre per la carne da macello come siamo tutti noi è un sintomo depressivo.

NarcySwing a cottimo. Suoni urbani e dilatati per descrivere un elemento del nostro vivere sociale che da disturbo si è trasformato in condizione esistenziale essenziale. La parola Narciso ha come etimo quella greca di “Narkào” che significa “Stordisco”. E’ proprio questo che siamo, completamente storditi da quello che il mercato ci ingiunge di essere e che noi chiamiamo: libera scelta.

Nuovo Ordine Provinciale. Disarmonie e suoni concreti di stoviglie, sogni di uguaglianza sociale, il potere che vuole disarticolare le pericolose istintualità umane verso il senso di libertà e solidarietà agisce soprattutto sulle viscere di chi si lascia irretire per poi essere scaraventato di nuovo nella brutale realtà della propria cruda, eterna miseria.

In un Purgatorio di fibra ottica: una plumbea atmosfera di elettronica siderale evoca la nostra condizione di prigionieri del senso di colpa indotto dalla società dei consumi nella sua forma digitale che ci fa sentire continuamente inadatti, non performanti oltre a provocare secchezza del derma e meteorismo.

Lettera ad un’acciaieria mai nata: Non sono canzoni alla Guccini però non possiamo parlare solo di mutande e allora facciamo una canzone di lotta e di protesta in un deragliato cantautorato bastardo che pisci sopra le aiuole che sono come coloratissime corone mortuarie dell’assessorato all’urbanistica al funerale del paesaggio.

Il Fentanyl allevia lo stress. “Fatti un selfie in sala operatoria” in “Crimes of the Future” (2022) David Cronenberg immagina un futuro nel quale il dolore fisico è stato sconfitto così come le malattie infettive e la fisiologia umana riesce ad assimilare la plastica. L’arte si occupa di performance chirurgiche durante le quali il pubblico assiste a spettacolari vivisezioni, endoscopie e mutilazioni di varia natura. Al posto dei pennelli l’artista utilizza il bisturi e il divaricatore, sorridendo alla fotocamera dell’I Phone, “tu chiamale se vuoi resezioni”.

La lobotomizzazione del risveglio: secondo il macellaio della psichiatria Walter Jackson Freeman II uno dei principali effetti dell’intervento di leucotomia era quello di indurre chirurgicamente l’infantilizzazione del paziente riducendo la complessità della sua vita psichica. I bambini sono più facili da correggere, ricondizionare e addomesticare ed è esattamente questo che il potere vuole: schiavi che siano docili, sottomessi e decerebrati esattamente come ognuno di noi.

Il delirio impostoci. Non ti scordare che ti aspetto al varco e non ti scordare la precarietà del cuore, in una periferia desolata e disanimata, pura poesia “spoken word” intarsiata di nebbia e luminescenza.

Ned Ludd v.s. I.A. In tal plan da sine. Vocoder, drammatiche sensazioni, spericolata e sofisticata elettronica da lounge bar che stride completamente con tutti gli altri brani del disco e sembra un altro modo di contraddirsi. I testi rimettono il tutto in equilibrio denunciando i “moderni squartatori a capo della finanza mondiale”.

Blues immerso nell’iperico: la scala pentatonica per definizione pencolante e sghimbescia è da almeno due secoli quella che fa da tramite tra il miserrimo stato della nostra esistenza e il nostro innato desiderio d’entropia e di dissoluzione; è per questo che ogni funerale va suonato in blues, anche quello del nostro ego che affoga dentro lo schermo di uno smartphone.

L’altra divagazione pseudo-critica riguarda l’iconografia e il progetto grafico attraverso il quale il lavoro si presenta al pubblico davvero notevole e significativo anche per il suo senso del grottesco.

Tra gli scatti più iconici della storia della fotografia ci sono quelli che immortalano Lee Miller nella vasca da bagno di Adolf Hitler.

Elizabeth (Lee) Miller (1907-1977), da modella del surrealista Man Ray, amica di Pablo Picasso, Jean Cocteau, Joan Miró, Leonora Carrington e Max Ernst, è stata una delle più grandi fotografe del Novecento e poi eccellente inviata di guerra corrispondente accreditata per l’esercito americano. Fu lei infatti l’unica donna fotografa a documentare la liberazione dei campi di concentramento di Dachau e di Buchenwald da parte degli alleati, testimoniando la tragica visione che le si presentava in quei luoghi: corpi accatastati e orrore ovunque.

È proprio di quel periodo il suo scatto più celebre, divenuto iconico dopo la sua pubblicazione nel 1945: nei giorni della liberazione, il 179° Reggimento, 45° Divisione dell’esercito americano aveva scoperto uno degli appartamenti di Hitler a Monaco di Baviera.

Lee, insieme al fotografo David E. Scherman, di comune accordo, allestirono una sorta di studio fotografico nella stanza da bagno studiando ogni minimo dettaglio per rendere lo scatto perfetto per la propaganda americana, sistemando sfrontatamente, per esempio, un ritratto del ditattore sopra la vasca. Nello stesso periodo a Iwo Jima, Joe Rosenthal scattava la foto del tutto posticcia che ritrae i soldati americani che innalzano la bandiera, come ha spiegato egregiamente Clint Eastwood nel suo “Flags of our Fathers”.

A raccontare la biografia della fotografa, naturalmente fasulla come tutto sotto il cielo di Hollywood, anche un film di imminente uscita, alla buonora anche in Italia, nel quale la celebre fotografa è interpretata da Kate Winslet (“Lee” di Ellen Kuras, 2023).

La propaganda, il marketing, il fake e tutto quanto c’è di posticcio e vendibile sono l’essenza stessa dell’economia di mercato che vende a prezzo di realizzo le nostre coscienze e gli altri inservibili rottami.

Luca A d’Agostino, Maestro della luce, ha immaginato per noi le foto che accompagnano l’ultima incisione degli Autostoppisti, realizzando un cortocircuito situazionista; nella vasca non c’è più l’affascinante musa surrealista, ma l’altrettanto bello e impossibile, poeta e musicista, Franco Polentarutti immerso nella schiuma fino alla cintola in versione nature e con la camicia. Alle pareti, sulle piastrelle candide, le foto degli altri musicisti.

Autostoppisti Del Magico Sentiero

Narci Scisma – La Lobotomizzazione Del Risveglio

Formazione

Martin O’Loughlin, Marco Tomasin, Franco Polentarutti, Fabrizio Citossi, Federico Sbaiz, Stefano Tracanelli, Alessandro Seravalle

Ospiti illustri

Giorgio Pacorig, Mirko Cisilino, Marco D’Orlando, Aldo Becca, Andrea Balzola, Paola Mongelli, Alberto Blasizza, Ambra Drius, Mirko Jimi

In collaborazione con Estensioni – Jazz Club Diffuso

Slou societa’ cooperativa MAKE Spazio espositivo

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