Il nome del paese di San Martino del Carso è scritto a lettere di fuoco nella memoria di tutti gli italiani. Generazioni di scolari ne hanno imparato la toponomastica fatta di brandelli di muro, subendone forse l’aspra tragedia e il doloroso strazio.
La voce di Giuseppe Ungaretti ha siglato i versi definitivi sull’orrore dei massacri sull Carso a partire dalla propria esperienza, dal sudiciume della guerra fino ai sassi levigati dell’Isonzo
A più di cento anni, seppur nel nostro cuore nessuna croce manca, è possibile guardare a San Martino come uno dei tanti splendidi, pacifici paesini del Carso goriziano, immerso in un paesaggio stupendo che ha trionfato sull’orrore di tante guerre.
Dall’Albero isolato, di cui parla il sottotitolo della famosa poesia datata 27 agosto 1916, è idealmente germinata l’ombrosa pergola di fronde di gelso sotto la quale si mangia, si ozia e ci si diverte alla trattoria “Al Poeta” dedicata proprio alla memoria di Ungaretti.
Certo sono necessari anche i monumenti, le celebrazioni, le giornate della memoria e via di seguito, ma, non sembri sacrilego, bere un bicchiere di vino in allegria e serenità insieme agli amici, ascoltando buona musica, è il modo migliore di ricordarsi di quella generazione di giovani assassinati dalla storia e dal potere che chiedevano solo di godere della loro gioventù e che ora dormono a migliaia i loro eterni incubi sotto una calpestata scalinata di marmo.
Giorgia D’Artizio è un’artista multiforme e poliedrica in grado di trasmettere le proprie illuminazioni di poetessa attraverso il canto e la musica. La sua è una voce sottile e suadente in grado di penetrare gli angoli più nascosti del cuore e della coscienza. Dopo un fortunato Ep d’esordio “Ultima Notifica”, la cantautrice ha cominciato a lavorare a “Nomea”, un progetto ancora più ambizioso, una sorta di continuo work in progress che potremmo definire di teatro-canzone, un racconto scenico-musicale d’impegno sociale grottesco, surreale, divertente e tragico allo stesso tempo, tra Bertold Brecth e Frank Zappa.
Per la sua prima messa in scena nel cortile dell’osteria “Al Poeta”, D’Artizio ha selezionato una vera e propria piccola compagine orchestrale di ottimi musicisti cui è legata oltre che dall’arte da un vincolo di profonda amicizia.
Primo fra tutti il chitarrista e performer Alfredo Pittoni aka Freddy Frenzy, amico di tante avventure artistiche e compagno di vita, poi un combo di musicisti che davvero rappresenta il meglio di quanto il nostro territorio possa regalare al mondo della musica: Clarissa Durizzotto (sax e clarinetto) Mirko Cisilino (tromba, trombone, aggeggi e fisarmonica) Max Ravanello (arrangiamenti, Basso tuba) Marco D’Orlando (Batteria).
A questi ottimi professionisti si sono affiancate le melodiose voci di tre artiste in grado di rubare la scena a tutti gli altri: Laura Giavon, Daisy De Benedetti e Caterina De Biaggio, giovanissime artiste di grande competenza e solida formazione.
Visto che anche l’occhio vuole la sua parte e la bellezza non guasta mai, le tre splendide coriste, come outfit portavano un abito lungo nero da gran sera nero con un make up che ricordava quello di Pris l’androide “Pleasure Model” interpretato da Daryl Hannah nel film Blade Runner, proprio come s’era sognata di truccarsi la notte prima una delle coriste.
Tutti insieme, a partire dalle intuizioni e dalle tracce di D’Artizio, hanno tessuto la tela di uno spettacolo in divenire che, ruotando attorno a precisi nuclei tematici, lascia molto spazio anche all’improvvisazione e a futuri ulteriori sviluppi.
Non c’è bisogno nemmeno d’aggiungere che quella appena descritta può essere considerata a tutti gli effetti, una vera e propria forma d’arte generativa che viene ripensata e riadattata nel momento in cui si fa.
Al contrario di ciò che si può snobisticamente pensare, non c’è luogo e tempo migliore del cortile di un’osteria in una serata estiva per creare un laboratorio artistico mettendo in scena ciò a cui si sta ancora lavorando. L’autentica arte popolare dei musici e dei saltimbanchi storicamente nasce sulle aie, sui sagrati delle chiese nei giorni di mercato, per le strade delle città affollate di anime e di speranza e si compie da sempre tra i tavoli delle osterie tra gente affamata e assetata “d’amore di morte e altre sciocchezze”. Proprio Guccini, il grande poeta di Pavana dopo aver pubblicato le sue “Canzoni da Intorto” con aspra, dolcissima voce d’anarchia s’appresta a pubblicare “Canzoni da Osteria”, sinossi della migliore cultura popolare che il nostro paese abbia saputo creare.
All’ osteria “Al Poeta” sul far della sera, sotto la luna che iniziava ad occhieggiare, la prima parte della serata è stata dedicata ad una scelta dal repertorio della cantante, ad alcune divertenti composizioni di Freddy Frenzy, e poi alle improvvisazioni jazzistiche della band.
“Jamaican Ska” ha fatto vibrare immediatamente l’atmosfera di quel sound che sa di sole, di sabbia e di giustizia. I ritmi in levare hanno poi lasciato il passo a D’Artizio che cantava scalza come la Joan Baez dei tempi migliori.
Il brano, “Il Vantaggio”, tratto dal suo Ep d’esordio “Ultima notifica” E’ un ragionamento in musica sulle opacità della nostra società della comunicazione che confonde il desiderio e il consenso con i like sotto ad un’immagine fasulla di per se e manipola l’informazione a proprio esclusivo vantaggio.
“La coscienza il sistema non ce l’ha”, ma resta la speranza che ci sia una nuova umanità in grado ancora di costruire un mondo più giusto e possibile.
Molto piacevole sentire dal vivo le ritmiche e le linee di basso sottolineate dal basso tuba di Max Ravanello. Lo strumento di “puro metallo balcanico” è stato di recente, fortunosamente acquistato dal musicista ed ha una particolarissima e affascinante voce degna dell’orchestra per matrimoni e funerali di Bregovic.
“Dove il tempo vola” cantata da Freddy Frenzy si chiede dove mai sia finita la speranza e la Rivoluzione, è una sognante, a volte sconsolata, riflessione su “un futuro che si annuncia peggiore, sigillo e contrassegno della nostra epoca”. Il tessuto melodico sornione e perfino beffardo, è stato impreziosito da uno splendido assolo di tromba con sordina di Mirko Cisilino.
“Animali liberi” ci ha ricordato di quelle “povere bestie” che hanno avuto il loro momento di notorietà e relativa libertà durante il lockdown e che oggi sembrano tornati ad essere i nostri nemici giurati e naturali.
Se durante i tremendi giorni dell’epidemia, i social e la comunicazione in generale, sbavavano melassa per tutti quegli animali che approfittavano dell’assenza degli umani per riguadagnare i loro spazi nelle città “abbandonate” come i delfini nella laguna di Venezia, “mamma cinghiala” con prole che rovistava tra la spazzatura, i cervi che brucavano l’erbetta dei giardini di periferia e via di seguito; ora s’invocano le stragi dei cacciatori per debellare la presunta invasione di branchi di lupi famelici, orsi assassini e la xeno invasione dei voracissimi granchi blu o dei calabroni asiatici.
Molto efficace il divertente intarsio orchestrale dixieland che ha coperto tutta la seconda parte del brano.
“We don’t want these word” il refrain fa subito capire l’intento del brano: il rifiuto totale dell’ipocrisia di questo mondo che ci vuole costringere ad odiare i nostri fratelli fino al disprezzo di noi stessi. Il sax di Durizzotto si è fatto strada tra le intricate tessiture ritmiche dei tamburi di D’Orlando, seguita dal basso tuba di Ravanello per un Rocksteady reggae delizioso, ricco e suadente.
Dopo altre fantasie jamaicane, è stato lasciato campo libero al quartetto formato da D’Orlando, Durizzotto, Ravanello, Cisilino che si sono impegnati in un’improvvisazione su “Little sunflower” di Freddie Hubbard piegata ai ritmi caraibici notturni e lunari, sempre alla ricerca di un luogo immaginario dove fantasia e follia si possano gioiosamente incontrare.
Cisilino ha imbracciato anche la fisarmonica, soffiando nelle sue lamelle suoni dilatati e narrativi quasi cinematografici per atmosfere sognanti e sospese, mentre Durizzotto con la sua solita energia “spingeva” sulle ance colori saturi e sapidi, per timbro e carattere, in fraseggi a volte dissonanti che molti cercano di affrontare, ma che solo pochi talentuosi come lei riescono a sostenere. Dietro le pelli dimostra ancora la sua versatilità D’Orlando che esprime sempre un pregevolissimo drumming, ricco, speziato e incisivo, in una gamma espressiva che attraversa con naturalezza i generi più diversi.
Dopo una breve pausa ristoratrice, la seconda parte del concerto ha visto l’esecuzione per intero e senza eccessivi stacchi, della suite “Nomea”.
Ad introdurre questa parte dell’esibizione è stata un’intensa lettura di Andreina Tonello che ha interpretato un breve testo della poetessa D’Artizio che, in un crescendo quasi mistico, si concludeva così: “Questo canto è rivolto a te, Terra madre, nella speranza che i nostri disagi esistenziali vengano un poco compresi, lasciando spazio al tuo grembo materno che con ferocia ripudiamo e che grida di dolore a causa della nostra infinita ignoranza. Terra, Terra…Madre!”
Di certo, inizialmente, una parte dei numerosi avventori dell’osteria era ancora distratta dai piaceri della tavola e della conversazione spensierata tra birrette, Ljubljanske e deliziose Palacinke, ma è stata la musica a conquistarli, a poco a poco, come un’altra delle deliziose pietanze offerte in quel luogo nel quale si ristora lo spirito e il corpo. Come si dice proverbialmente “A pancia piena si ragiona meglio”.
Ribadiamo che, al contrario di ciò che si pensa, la gioiosa convivialità è davvero il modo migliore anche per discutere dei temi più profondi dell’esistenza e non serve ricordare che Socrate, nell’antica Atene, era noto anche per come riusciva a reggere alle più grandi bevute, conservando intatta la propria lucidità e capacità logiche, durante i simposi.
Giorgia D’Artizio è un’ottima front woman che, anche grazie al sostegno di musicisti di prim ordine, sa regalare intense emozioni. Tutti insieme dimostrano che è ancora possibile rifiutare lo stile narrativo ed espressivo basso e didascalico che ci viene imposto dai mezzi di comunicazione commerciale per una modalità che, in cambio di un minimo di riflessione e attenzione, gratifica immediatamente chi le presta ascolto senza pregiudizi di sorta.
Particolarmente evocativo è stato il brano che racconta della pendolare stanca e del Perso, due cuori “sbranati” dai ritmi disumani della nostra società che finiscono per “specchiarsi” l’uno nell’altra trovandosi a metà strada lungo le distorsioni della loro alienante solitudine quotidiana proprio la, in quell’infinito dove i binari paralleli finiscono per toccarsi
La title track “Nomea” racconta dell’ottundimento dei sensi dovuta alle perversioni della chiacchiera in un contesto sociale come il nostro, nel quale ci costringiamo all’anaffettività e alla perdita quasi totale della percezione dei nostri corpi.
I sapienti arrangiamenti di Max Ravanello hanno lasciato molto spazio alla libera improvvisazione e interpretazione dei singoli musicisti, che sono stati lasciati liberi di veicolare sia le emozioni del momento, sia l’ispirazione proveniente dal luogo, che ha avuto l’effetto di moltiplicare le suggestioni del testo poetico alla base dell’opera.
L’esito complessivo di questa esibizione ha felicemente dimostrato quanto questi artisti siano completamente in controtendenza, tra vocalizzi stranianti e free form, tanto che la suite è riuscita perfettamente a rappresentare il disagio e la dissociazione che costringono le nostre vite ad arrancare.
A poca distanza da questa prima esecuzione pubblica, mentre si scrivono queste ultime righe, l’eterogeneo ensemble è in studio di registrazione per incidere i brani di quello che possiamo definire un concept album.
Non sarà di certo facile riprodurre con assoluta fedeltà le grandi emozioni provate durante il concerto, il disco sarà una cosa completamente nuova, anch’esso una sfida motivata dall’amore incondizionato per le altre creature a discapito solo della nostra arroganza, allo scopo di impedirci di provare i vani sentimenti di “Chi obbedisce alle ragioni, fuori dai nostri tempi, perchè chi obbedisce non patisce.
Disobbedienti sempre!
© Flaviano Bosco – instArt 2023