Il senso comune individua il cinema muto con i capitomboli di strani personaggi clowneschi che scappano a rotta di collo inseguiti da una torma di poliziotti. La velocità di movimento, il ritmo incalzante, la spericolatezza sono alcune delle chiavi del successo del cinema pionieristico, ma in realtà da allora poco è cambiato e anche oggi velocità e ritmo sono alla base del cinema con i suoi supereroi, guerrieri galattici, spie e criminali acrobati di varia classe e categoria.

Le immagini spericolate innalzano i livelli di adrenalina nel nostro sangue e ci danno ancora quella salutare scarica che ci fa aggrappare forte alle poltroncine dei nostri multisala.

Visto che le tecniche e i gusti con il tempo cambiano anche radicalmente, è molto piacevole, soprattutto per i cinefili, andare a vedere come il cinema ha cercato di modellare le proprie strategie in questo senso da Mack Sennett a Denis Villeneuve.

Tenuto conto che gli schemi narrativi, in sostanza, sono sempre gli stessi dai tempi dell’Epopea di Gilgamesh e sono sintetizzabili nel cosiddetto modello del “Viaggio dell’eroe”, a stupire non saranno tanto le storie che sono sempre variazioni della medesima, ma gli artifici scenografici, attoriali e di costume che spesso regalano emozioni da spaesamento. I film, come sostenuto in molte altre occasioni, sono “finestre nel tempo”, ciò che vediamo è sempre già stato in un’altra dimensione temporale e spesso anche in un luogo che ci è ora del tutto inaccessibile perchè trasformato.

Le Giornate del cinema muto, in questo senso, sono una vera e propria macchina del tempo, in grado di farci viaggiare nel passato e immaginare, a volte con qualche buona approssimazione, il futuro, naturalmente il presente è irrappresentabile con i mezzi meccanici e rimane sempre e comunque un enigma.

Si ricordi che, mentre il 13 febbraio 1895 i Fratelli Lumière brevettavano il loro “ordigno” per riprendere e proiettare con il quale il successivo 28 dicembre diedero vita alla prima forma di Cinema a pagamento, sulla New Review di Londra usciva a puntate il fondamentale “The Time Machine” di H.G. Wells che ebbe la prima edizione in volume rilegato il 7 maggio di quello stesso anno. Certo è una coincidenza, ma qualcosa vorrà pur dire, o no?

Anche lo stereotipo dell’eroe è cambiato, o meglio si è evoluto. Alle soglie della Prima Guerra Mondiale le vere novità erano il crescente potere dei futuri media (il giornalismo stava per passare il testimone all’immagine cinematografica) e l’industria bellica. Perciò gli eroi che solleticavano l’immaginario collettivo erano i giornalisti intraprendenti e gli scienziati pazzi.

Bene hanno fatto quindi le Giornate del Muto a riscoprire la figura del tutto dimenticata di Harry Piel, famosissimo all’epoca, attore e regista acclamato dalle folle in Germania, ma di grande fama internazionale con fan adoranti perfino in Brasile. Era il Duglas Fairbanks europeo, il Tom Cruise di allora spericolato e piacione.

Nei suoi film la trama era del tutto pretestuosa e serviva a giustificare solamente audaci acrobazie d’ogni sorta, pericolosissimi inseguimenti, con ogni mezzo possibile e immaginabile, dal cavallo all’aereo. Dopo i grandissimi successi degli anni ’20, nel pieno della sua carriera, nel 1933 pensò “male” di aderire al nazismo che poteva garantirgli un nuovo futuro e invece lo precipitò in un abisso di oblio e orrore come fece con tutto il mondo.

Das Abenteur eines Journalisten (L’avventura di un giornalista) di Harry Piel 1914

La pellicola è quello che resta di un film considerato del tutto perduto dopo i bombardamenti della Seconda Guerra mondiale. La versione proiettata alle Giornate presentava le didascalie ricostruite ed evidenti salti narrativi dovuti alle centinaia di metri di pellicola andati distrutti.

Un ingegnere inventa il metodo di detonazione delle mine senza fili, Harrison giornalista frequenta la figlia dell’ingegnere che ha dei sospetti sul giardiniere di casa. Ne ha ben donde infatti il losco figuro è a capo della “Medusa”, un organizzazione segreta e vuole rubare i progetti della “bomba” per rivenderli al ministero della guerra. I cattivi finiscono per rapire lo scienziato “bombarolo” incendiandone il laboratorio.

Il giornalista, zitto zitto, quatto quatto, comincia ad indagare fino a trovare il covo dei manigoldi e li stana a colpi di granate.

Il finto giardiniere, vero terrorista, non si arrende e, dopo averla scampata insieme ad alcuni suoi sgherri, trama per ottenere il finanziamento ministeriale al posto del legittimo inventore.

Naturalmente scatta un interminabile inseguimento durante il quale una lunga sequenza è dedicata all’avveniristica ferrovia sospesa di Wuppertal, in funzione dal 1901 che oggi ha un fascino assolutamente retro-futuristico e steampunk.

Segue una corsa a cavallo a rotta di collo, virate assassine su un velocissimo motoscafo mentre i cattivi, sempre a cavallo, dalla riva e poi in barca sparano come nei primi Western americani che furoreggiavano all’epoca, e ancora inseguimenti in auto, e poi su aerei molto rudimentali che si sfidano a colpi di pistola e di bombe a mano lanciate da uno all’altro, una strana battaglia nei cieli come da lì a poco sarebbe capitato davvero nella guerra mondiale.

Il giornalista finisce per lanciarsi con un paracadute atterrando fortunosamente su un albero senza però rovinare il suo completo giacca e cravatta e nemmeno spettinarsi. A parte l’ironia si noti che il primo lancio da un aereo in volo risaliva solo a due anni prima dell’uscita del film nelle sale (Cap. A. Berry nel 1912 presso Saint Louis, Usa) e che il servizio aereo tedesco, primo nel mondo, lo adottò ufficialmente solo nel 1918.

Naturalmente, dopo tante peripezie atletiche, Harry Piel, giornalista intrepido, sabota l’esperimento del sedicente giardiniere che finisce per esplodere. Dopo aver liberato il vero scienziato-inventore riescono a dimostrare agli incaricati del Ministero che il comando a distanza delle mine funziona veramente così da intascare il denaro promesso. Tutti sono felici e contenti e vanno verso la guerra con il sorriso, non sanno che di lì a poco l’orrore si abbatterà sull’Europa e non lo sapevano nemmeno gli spettatori.

Das Rollende Hotel “L’albergo che viaggia” di Harry Piel (DE 1918)

Ancora più stravagante della precedente, la pellicola racconta le avventure di un nuovo giornalista che questa volta si chiama Tom; è il redattore capo del quotidiano “Kahlkopf” (Cavolfiore) che si occupa di monitorare i prezzi del mercato ortofrutticolo. Potrebbe sembrare autoironico, ma in realtà è solo una cosa inconsapevolmente surreale.

Parker, un grossista di verdure, vuole maritare Addy, la bella figlia adottiva, con il viscido Johnson con il quale ha dei loschi traffici. Naturalmente, lei è innamorata dell’intrepido giornalista “fruttarolo” inviso ai commercianti per le sue inchieste. Infatti, il grossista Parker cerca di screditare Tom il giornalista sbugiardandolo sul prezzo del cavolfiore in una sequenza che se non fosse totalmente ingenua per i suoi toni seriosi, si direbbe grottesca e ridicola.

I due innamorati sono spalleggiati dal detective Deebs che favorisce la fuga della bella nascondendola in un caravan di un ex stella del circo. Il carrozzone è provvisto di tutti i comfort perfino di un’improbabile profonda vasca da bagno che non ha alcun senso nell’economia del racconto e serve unicamente a suscitare lo stupore degli spettatori. Quelli moderni non si scompongono più di tanto per l’esaltata opulenza e, invece, notano subito che in tutta la pellicola, si fuma moltissimo e si bevono bicchierini e superalcolici a ripetizione, come se non ci fosse un domani e nemmeno la cirrosi.

Il nascondiglio mobile viene scoperto e, nella concitazione della fuga, succede un grave incidente e il carrozzone con tutti i cavalli salta la spalletta di un ponte e finisce rovinosamente nel fiume.

Miracolosamente i due si salvano, all’incantevole Addy non resta che intraprendere una lunga fuga con il suo Tom. Dopo questo preambolo del tutto pretestuoso, inizia la sagra dei soliti inseguimenti che sono il cuore pulsante di questi film e l’unico motivo di interesse della pellicola allora come oggi. Harry Piel in carriera ne interpretò o diresse almeno un centinaio di cui purtroppo restano solo brandelli più o meno lunghi recuperati fortunosamente.

La coppia corre in macchina, bici, treno e via di seguito; un investigatore prezzolato dalla stranissima pipa gli sta alle costole, tutto per impedirne il matrimonio.

Se ne scappano anche in alta montagna in Baviera sullo Zugspitze, la più alta montagna della Germania (2962 m s.l.m.): “Nessuno verrà a cercarci qui” ma il detective implacabile, infine, li raggiunge dopo grandi fatiche.

Le sequenze sono davvero girate sulla cima innevata della montagna dove Piel trascinò la propria troupe per un’impresa di alpinismo cinematografico per quei tempi assolutamente estrema.

Spettacolari le sequenze in esterni, molto particolari e spericolate fino al funambolismo sui cavi della funivia per scendere a valle e poi via in treno.

Come abbiamo ripetuto più volte, la storia è solo un pretesto per spettacolari spostamenti continui e quasi senza senso con un gran sfoggio di mezzi tra i più improbabili, sempre fumando sigarette, pipe e sigari dalle fattezze e forme tra le più strane e bizzarre; prima del politicamente corretto, molti film d’azione sembravano un lungo spot per una linea di articoli da tabaccheria.

Non manca nemmeno l’inseguimento con macchina da corsa con tanto di incidenti e cappottamenti. Fa tenerezza a noi spettatori moderni la ripresa di un trenino in diorama dall’alto come effetto speciale assolutamente artigianale e rudimentale.

Tom sposa Addy sul treno, missione compiuta, per il buon detective Deebs che ha fatto in modo di favorire il connubio, e vissero felici e contenti.

Der Berg des Schicksals (La montagna del destino) di Arnold Fank 1924

Film sull’alpinismo del tutto eccezionale, un dramma sulla natura con immagini che ancora oggi non hanno perso niente del loro fascino e della loro capacità di ispirare tensione, suspense e perfino vertigine negli spettatori.

Il regista Fank dimostra il suo interesse principale per le immagini naturalistiche e poi la sceneggiatura: le nuvole che passano sulle alte cime, il sole che appare e scompare, gli abeti con la neve, il disgelo, i fiori e poi di nuovo il ghiaccio e la roccia aspra e nuda. La pellicola proiettata è frutto di un pregevole restauro di una copia con alcune parti a colori dalla cineteca di Leni Riefenstal.

L’attore protagonista è Hannes Schneider, che fu sciatore medagliato alle Olimpiadi invernali 1922.

L’opera è solennemente divisa in quadri, quasi si trattasse di un’opera lirica; le didascalie servono spesso da vero e proprio cambio scena o salto temporale.

Preludio – La sua terra natale. Amava la sua terra natale e le sue montagne (Dolomiti del Tirolo) Meravigliosi picchi e nuvole a sfioro, amava lo scrosciare della cascata che giungeva fino a lui (Stupende le immagini della cascata – acqua pietra energia) e i campanacci delle greggi che risuonavano nella valle.

Amava il lago in cui si specchiavano le montagne e desiderava le nuvole fantastiche che passavano luminose sulle alte cime.

Ma le sue passioni erano la dura roccia e il potere che aveva su di essa.

1 Atto uno

Si comincia con due scene di famiglia contrapposte nell’alta montagna tedesca, nella prima, due donne accanto al classico Bauernofen con Ofenbank (Stufa co in una casa contadina con un bambino; nel castello l’amichetta del piccolo con il nonno nobile della vallata.

Nel frattempo il padre del primo bambino arrampica a mani nude sulla terribile “Guglia del diavolo” con l’ultima parete del tutto verticale e senza alcun appiglio, non riesce a vincerla per quanto si sforzi. E’ la sua ossessione. Le immagini dell’arrampicata sono molto realistiche e “verticali”.

I due bambini, il contadino e la contessina sono amici, giocano assieme spensierati.

La moglie è preoccupata per la spericolatezza del marito: “Dovrebbe smettere con l’alpinismo per il bene di suo figlio. Che senso ha giocare con la morte?”

Lui, indomito, insegna ad arrampicare anche al figlio, la moglie è terrorizzata “Perchè continui a tormentarti per quella cima?” mentre la suocera è contenta.

La vecchia orgogliosa dice: “Ce l’ha nel sangue, come tutti nella mia famiglia! La montagna non può essere più forte”.

Atto 2

L’ultima sfida

Lo spericolato padre di famiglia ci riprova ancora una volta. Oltre la pipa e gli scarponi non ha alcun equipaggiamento. Vuole salire a mani nude senza corda, martelli e chiodi. Nel convincente montaggio, si alternano e sovrappongono sequenze di lui che scala davvero e quelle del bambino a casa che gioca all’alpinista scalando la grossa  Bauernofen di casa. L’ultimo pezzo prima della cima è proprio impossibile e deve desistere nonostante tutti gli sforzi.

“Fin qui e non oltre, nessun essere umano metterà piede sulla Guglia del diavolo” inchioda un cartello con scritta in italiano nell’originale, che poi butta per ritentare di nuovo nonostante stia arrivando la sera e un brutto temporale.

A casa lo aspettano con la cena pronta, le immagini insistono sull’estrema difficoltà della vertiginosa scalata in solitaria, non c’è proprio alcun appiglio. La moglie in ambasce a casa prega, lui alla fine dopo l’estremo tentativo cade e muore, la mano gli cede e precipita nello strapiombo. Arriva il temporale con lampi e tuoni; a casa intuiscono, il dramma in una sequenza straziante e cupa, quasi degna del cinema espressionista

3 atto

Sono passati molti anni dalla tragedia: “L’alberello è diventato un albero, il bambino è diventato un uomo.” Anche l’alpinismo è cambiato ma nonostante le nuove tecniche d’arrampicata, nessuno è ancora riuscito a vincere la terribile Guglia del diavolo. La nonna e il figlio tengono d’occhio tutti coloro che si avventurano fin lassù, temono che qualcuno conquisti la “loro” vetta.

Anche la bambina del castello, la contessina, è cresciuta diventando una bella ragazza con una grande passione per l’alpinismo.

”Una volta che hai provato non puoi più farne a meno”. Anche il figlio arrampica intrepido, immagini mozzafiato, lei lo guarda con il binocolo e lo ammira.

“L’alpinismo è una follia” e a lei piace lui proprio per questo.

Si toglie la gonna sotto la quale ha i calzoni alla zuava e gli va incontro. Sale anche lei la cima verso di lui che sta scendendo. Salgono sempre di braccia e di gambe senza corda. Lui la bacia mentre lei sta arrampicando “Questo è il mio appiglio” “No, il mio!” arrampicano insieme guidati dall’amore. Le loro famiglie vedono di buon occhio la relazione tra i due: “Solo lui può volere quella scatenata”.

“Quando incontrerà il suo conquistatore, la vetta?” domanda lei a lui che non vuole tentare dove suo padre ha fallito.

Lei lo incalza e gli dice di tentare un’altra via: “Tu devi essere il primo ad arrivare in cima!” ma lui non cede “Sei un codardo?” lo insulta e ci va da sola.

Altri alpinisti nel frattempo stanno tentando l’impresa.

Quarto atto

Le sequenze a livello quasi documentaristico mostrano vari modi di scalare, tra questi anche quello con corde e chiodi oppure quello in una fessura vertiginosa della montagna, il Camino, con i piedi puntati su una parete e la schiena sull’altra.

Intanto lei scala pericolosamente in grande velocità per precedere gli estranei. E’ chiaro però che la tipa non può farcela da sola a raggiungere la cima della guglia.

Il solito ottimo lavoro di montaggio paragona l’arrampicata a mani nude ritenuta più rispettosa e in armonia con la montagna con quella che procede a colpi di maglio piantando grossi chiodi nella roccia cui assicurare placche d’ancoraggio. Si vedono alcune discese in corda doppia, la più pericolosa di tutte con un alpinista sostenuto nel vuoto da un singolo ad un singolo chiodo, fa davvero impressione e dimostra quanta cura e perizia ci volle per girare la scena.

Molte immagini sono dal “vero” e fanno venire ancora le vertigini. Il chiodo un po’ alla volta cede e l’alpinista si sfracella sotto gli occhi di lei che era rimasta bloccata a metà strada verso la guglia sull’orlo di un profondo, terribile precipizio. Spaventata non sa più come scendere. Arriva la notte e anche un temporale, proprio in una notte così era morto il padre del suo fidanzato. Non trovando di meglio da fare essendo intrappolata, la ragazza grida aiuto.

Quinto atto

“Salva mia figlia” dice il vecchio nobile nonno della ragazza .“Nessuno torna vivo dalla guglia in una notte come questa”. La Mamma vedova dice al figlio che se la salva, la morte del padre non sarà stata inutile, avrà avuto un senso.

Per significare la notte le immagini sono virate in azzurro, cieli immensi, “fantasie notturne sulla roccia”, lei è molto bella tra tuoni e fulmini.

Lui non solo si prodiga per salvare le bella, ma riesce a conquistare la vetta maledetta.

“Sulla cima ciò che suo padre desiderava” dice trionfale la didascalia mentre lui scende dal versante opposto con la corda per salvare lei sempre sotto i fulmini.

Grandi immagini del cielo con le nuvole in movimento velocizzate, sembra il Valhalla “e smisurato si avvicina il temporale”; le immagini sono un elogio alle forze della natura.

Fantastica quella con un bengala sparato ad illuminare una grande nevicata nella notte più nera mentre i due innamorati sono ancora bloccati in alta quota.

Il sole del mattino con i suoi raggi scioglie la neve e permette ai ragazzi di scendere. La cima è conquistata, l’amore vince sempre…e vissero felici e contenti.

La Madre di Giuseppe Sterni (Ita 1917, 55’16”)

La pellicola è stata preceduta da un breve teaser (1’44”) in cui Italia Vitaliani visita il regista Giuseppe Sterni per discutere del suo ruolo nel film.

La Vitaliani, nipote di Eleonora Duse, aveva una recitazione molto contenuta, non enfatica al contrario di quello che si usava all’epoca.

Italia Vitaliani si reca dal regista Sterni per discutere del suo ruolo nel film “La Madre.” E’ una signora piuttosto in carne, anche per l’epoca, è sempre serena e sorridente. Sterni era anche un attore di una certa fama.

Il tema della madre è uno di quelli che hanno costruito la storia del cinema e che ancora rapiscono le emozioni del pubblico. Basti pensare a La Madre di Pudovkin (1926), Mamma Roma di Pasolini (1962), Madre e figlio di Sokurov (1997), Madre di Bong Joon-ho (2009), giusto per saltare qua e là nel cinema contemporaneo. Certo la pellicola di Sterni non è una di quelle che hanno rivoluzionato l’arte del ‘900, ma bisogna tener conto che fu prodotto in piena guerra mondiale con la catastrofe di Caporetto alle porte.

Per capire la temperie del periodo, in questo senso, basti pensare al “Rito di Aquileia” durante il quale Maria Bergamaz venne consacrata come madre spirituale del Milite Ignoto, la cui salma venne poi traslata, con un lungo percorso attraverso mezza Italia, fino all’Altare della patria a Roma. Tutta quella prosopopea e quella retorica sono ben avvertibili nel film di Sterni che in questo senso vale come documento d’epoca.

Il film racconta in modo molto lineare e senza grandi pregi artistici di una madre bottegaia che ha un figlio panettiere di nome Roan, che vorrebbe fare il pittore. Lei lo ama molto ed è disposta a qualunque sacrificio per la sua felicità. Un famoso pittore capita nel villaggio e ammira i dipinti dell’umile panettiere consigliandogli di lasciare stare oppure di venire da lui in città per studiare sul serio. La mamma gli dice di coltivare la sua passione. Scenografie in esterno naturali, interni virati in seppia.

Il buon pargolo se ne va in città e la mamma, dopo averlo salutato alla stazione, rimane sola, “Addio madre” triste e sconsolata al paesello.

Lui diventato cittadino, non si fa mai sentire, allora lei, con il calesse trainato dall’asinello, si reca alla stazione e prende il treno. Arriva in città dal figlio portando le buone cose dalla campagna. Le cose non vanno per nulla bene e per di più lui s’è innamorato di Isabella “una donna indegna di lui” che vorrebbe per modella, ma la madre di lei pretende che la paghi.

La mamma bottegaia tiene i soldi nel fazzolettone e lui non vuole accettare l’elemosina della madre e promette di lavorare; “Non sei in grado di cavartela da solo, hai ancora bisogno di tua madre, resterò con te”. Dopo qualche mese. Lui ha successo.

Isabella ha rubato alla mamma il cuore del figlio. La mamma se ne sta a casa triste e lui a gozzovigliare torna mezzo ubriaco. “Quella donna ti rovinerà, se hai ancora un po’ d’amore per la tua mamma, lasciala!” Il figlio degenere invece giura: “Quella donna sarà mia!”

Triste e grigia la madre prega Isabella di lasciar stare suo figlio “che è studente che studia, che si deve prendere una laura e deve tenere la testa al solito posto, cioè sul collo” come in “Totò Peppino e la malafemmina” di Mastrocinque.

La mamma caccia Isabella la quale medita di vendicarsi.

Mater dolorosa “La ami più della tua infelice madre? Vuoi che la tua piccola madre muoia di dolore?” Arriva il mentore del figlio e dice al giovane pittore di non pensare più alla giovane Isabella, la vera musa ispiratrice è la mamma che si presta a fare da modella per un dipinto che è il clichè più volgare che si sia mai visto.” La preghiera di una madre”.

Tornata al paesello, a casa riemergono i vecchi ricordi del suo bambino ormai cresciuto: le prime scarpine, la piccola veste da neonato “Quando Emanuele aveva 5 anni (la madre bacia la foto come fosse la reliquia di un santo venerato).

La mamma soffre di cuore. Alla mostra d’arte lui riceve il primo premio con il dipinto sulla vecchia madre orante.

Intanto lei è sul letto di morte. “Desidero che mio figlio non venga informato della mia grave malattia”. Lui ritorna al paesello salutato come un eroe, grande artista, gloria locale, profeta in patria. E’ portato in trionfo dalla folla plaudente fino a casa della mamma che fa finta di stare bene per accoglierlo “Ora posso morire felice”.

Lui saluta il popolo dalla finestra e intanto la “vecchia strega” muore in poltrona come la mamma del feroce cavalier Catellami nel Fantozzi di Salce o quella imbalsamata di Psycho di Hitchcock. Il serto di alloro che spettava a lui poeta ormai di fama preclara, lo pone ai piedi della madre morta che sembra la statua della Madonna “Riposa in pace”.

Continua…

Flaviano Bosco / instArt 2024 ©