L’irriverente gioco di parole tarantiniano del titolo vuole richiamarsi alla grande opportunità che ci da il fatto di riconoscerci in un modello culturale e antropologico nel quale concetti aberranti come razza, purezza del sangue, eredità genetica sono solo ridicoli retaggi di un dimenticato passato.
Guardare gli altri e noi stessi come un arcobaleno di colori o come un intrico di esseri viventi in totale connessione tra loro così che non sia possibile o quasi distinguere tra l’uno e l’altro ci permette di sentirci parte di un’unica identità pulsante che è allo stesso tempo plurale nelle sue infinite varianti e manifestazioni.
“Visto da vicino nessuno è normale” diceva Basaglia e il discorso sulla salute mentale non è per nulla diverso da quello che vorrebbe separare nettamente le persone in base al colore della pelle, al genere, alla nazionalità o alle caratteristiche fisiche o culturali. Visto da vicino nessuno di noi è davvero bianco o nero, ma sfumatura, gradazione, chiaroscuro.
Ogni discorso sul sangue, sulla stirpe, sull’eredità culturale diretta, sulla rigida idea di Nazione è una criminale buffonata priva di ogni fondamento scientifico e volgarmente insensata. Bisogna continuare a gridarlo forte perché nel nostro paese sproloqui sull’argomento continuano a tornare ciclicamente in bocca ai soliti reazionari, pusillanimi.
Gli incontri in musica e chiacchiere di Biblioteca in Jazz sono serviti, ancora una volta, nel modo più piacevole e informale possibile, a far passare il messaggio che scaturisce dalla musica afroamericana, strettamente legata alle culture dell’Africa che possiamo riassumere nelle parole con le quali uno dei più grandi geni della musica contemporanea si definiva:
“Sono Charles Mingus. Mezzo nero, mezzo giallo…ma non proprio giallo e nemmeno bianco quanto basta a essere identificato come tale. Per quanto mi riguarda mi considero un negro…Charles Mingus è un musicista, un musicista meticcio che produce musica bella, terribile, amabile, maschia, femminile, musica. E ogni tipo di suono: forte, piano, inaudito. Suoni, suoni, suoni, suoni, suoni, suoni, suoni…Uno a cui piace un sacco giocare con i suoni”
Fatte le debite differenze davanti alla grandezza di un artista che ha segnato la sua epoca, siamo tutti fatti proprio così: bastardi dalla punta dei capelli fino a quella delle scarpe.
Half Black Half White Half Yellow – Suite for Charles Mingus. Flavio Zanuttini (tromba) Matteo Mosolo (contrabbasso)
Il terzo concerto allo Spazio 35 è stata un’assoluta anticipazione dell’uscita della suite che il duo ha dedicato al grande contrabbassista, band leader e compositore americano. Mingus, come abbiamo visto, è stato l’ambasciatore di tutti i bastardi del mondo; la sua arte e la sua musica sono un concentrato di quanto di meglio e perfino di quanto di peggio la creatività umana abbia saputo collazionare dal suo primo apparire, in sintesi da “Pithecanthropus erectus”, suo capolavoro del 1956, alla “ethnic folk-dance music” di “The Black Saint and the Sinner Lady” (1963).
Il Duo contrabbasso e tromba Mosolo/Zanuttini, che idealmente ricorda la grande amicizia tra Mingus e Fats Navarro, ha eseguito una composizione scarna ridotta all’osso, jazz senza fronzoli o eccessivi compiacimenti, ma proprio per questo preziosa e ricchissima, un vero e proprio balsamo che è andato alla radice della musica di Mingus per il quale il jazz altro non sarebbe se non un dialogo tra musicisti. La suite in nove movimenti è una biografia in musica del compositore americano che a partire da episodi vissuti della sua vita suggerisce uno dei possibili percorsi in musica nella sua esperienza d’artista e di uomo.
Il primo brano “Under watch towers”, si ispira ad un’incredibile opera architettonica nel quartiere di Watts a Los Angeles alla costruzione della quale il piccolo Mingus ebbe modo, in un certo senso, di partecipare.
Sabato (Simon) Rodia (1879-1965) era un miserabile immigrato italiano della provincia di Avellino che dal 1895 aveva fatto la fame con mille umilissimi lavori vagabondando per gli Stati Uniti.
Nel 1921, dopo essersi stabilito in uno dei quartieri più poveri di Los Angeles, gli venne la pazza idea di costruire, nel tempo libero dal lavoro, in un terreno abbandonato vicino a casa, delle alte torri in acciaio rivestito di cocci di vetro e di ceramica, conchiglie e pietre recuperate un po’ ovunque con l’aiuto dei bambini del quartiere, tra i quali anche Mingus. Un monumento alla genialità di Rodia fatto con la spazzatura, l’unico materiale che poteva permettersi.
Dopo trent’anni di lavoro, nel 1954 aveva costruito cinque enormi torri alte fino a 30 metri per un totale di 17 guglie che sono ancora un’attrazione turistica per la città.
La musica di Mingus senza ombra di dubbio è stata influenzata dallo spirito anarchico di questo artistoide che vale più di tutti i presuntuosi accademici archistar di oggi. Come hanno dimostrato Mosolo e Zanuttini, i materiali sonori possono sembrare raccattati a caso ma se ben congegnati il loro effetto è di un edificio musicale di enorme bellezza.
Anche nel brano “Half black half white half yellow” Mosolo non ha voluto battere la “facile” scorciatoia di quei tanti che, in occasione del centenario dalla nascita del grande compositore, hanno riproposto la sua musica in modo pedissequo, ammesso che sia possibile, con alterni risultati, a volte eccelsi, altri un po’ meno. Mosolo ha preferito rendergli omaggio con una composizione del tutto originale e l’operazione è pienamente riuscita. Musica bastarda, contaminata, pensata all’inferno che sembra voce d’angelo.
In “To Black for Beethoven” Mosolo ha voluto ricordare il trauma infantile di quando Mingus, piccolo studente di violoncello, venne discriminato durante un’esecuzione beethoveniana in orchestra perché non veniva ritenuta musica da neri. Fu l’amico sassofonista Buddy Colette che gli consigliò di passare al contrabbasso:
Tu sei nero. Puoi essere bravo quanto vuoi, ma non ce la farai mai nella musica classica. Se vuoi suonare devi suonare uno strumento da negri. Visto che il violoncello non lo puoi strapazzare, Charlie, ti tocca imparare a strapazzare il basso!”
Con “A Night in Tjuana” si sono potuti immaginare gli strumenti del duo che cantavano e ballavano ai confini del Messico con tutta l’anima voodoo blues che può esprimere un mariachi, con la sordina Mikey Mouse della tromba di Zanuttini che dava il necessario tocco caricaturale.
Ancora contaminazione e contiguità sono i termini che meglio descrivono la parola “Amore”. Sempre nella sua autobiografia, Mingus racconta di un’epica notte a Tijuana sul confine messicano quando tentò di “suicidarsi” facendo l’amore con 23 donne di seguito. Per quanto ci abbia provato per fortuna non ci riuscì, la morte purtroppo l’avrebbe raggiunto molti anni dopo, in modo molto più tragico e meno eroico.
In “Nice of you to have come to my funeral”, una semplice linea di basso suonato con l’archetto e tanta dolente improvvisazione alla tromba. Alla fine degli anni ’50, Mingus ebbe la malaugurata idea di farsi ricoverare nel manicomio di Bellevue Hospital a New York dove per poco non subì una lobotomia frontale. Unica nota positiva, tra i pazienti ricoverati incontrò un altro genio problematico Bobby Fisher e ci giocò a scacchi perdendo clamorosamente, non poteva essere che così.
“Fable of Mingus” irrompe con “rumori” alla tromba con la sordina Plummer e un giro di basso sornione e felino da piena jungla urbana, ma anche con ricordi del blues di Harlem. Mosolo suona con un guanto sottile alla mano destra e uno smorzatore di spugna al pick up vicino al ponticello, qualcosa di più di un semplice vezzo.
“Theme for Eric Dolphy” è un omaggio sia a Dolphy sia a Lester Young con riferimento alla canzone Goodbye porkpie head. La morte di Dolphy fu devastante per il contrabbassista. Brano struggente e lento come una lacrima.
“Let the children Had Music/ Beach full of Whales”. Ultimi due pezzi della suite; gaio e pieno di gioia e luce il primo, dedicato al ritorno sulle scene di Mingus nel 1963 a cinque anni alla scomparsa del musicista Eric Dolphy, quanto suadente e misterioso l’ultimo, relativo alla morte dello stesso contrabbassista. Il giorno in cui morì Mingus a Tijuana sulla costa del golfo del Messico a 56 anni, nelle vicinanze si spiaggiarono 56 capodogli, lui fu cremato, loro bruciati in una pira colossale.
Concludiamo con le parole con le quali inizia “Peggio di un bastardo”, l’autobiografia di Mingus:
“In altre parole. Io sono tre. Il primo sta sempre nel mezzo, senza preoccupazioni ed emozioni; osserva aspettando l’occasione di esprimere quello che vede agli altri due. Il secondo è come un animale spaventato che attacca per paura di essere attaccato. E poi c’è una persona piena d’amore e di gentilezza, che permette agli altri di penetrare nella cella sacra del tempio del suo essere. E si fa insultare, e si fida di tutti, e firma contratti senza leggerli, e si lascia convincere a lavorare sottocosto o gratis. Poi, quando si accorge di quello che gli hanno fatto, gli viene voglia di uccidere e distruggere tutto quello che gli sta intorno, compreso se stesso, per punirsi di essere stato tanto stupido. Ma non ce la fa: e così si rinchiude in se stesso”. Ognuno di noi è peggio di un bastardo, proprio come Charles Mingus.
Tull – Maier – Vattovaz. The Music of Duke Ellington. Giuliano Tull (sassofoni) Giovanni Maier (contrabbasso) Francesco Vattovaz (batteria)
Giovanni Maier è uno dei maggiori e più raffinati interpreti italiani della musica di Charles Mingus cui ha dedicato parecchie incisioni e una vita di passione e di studi. In occasione degli incontri di Biblioteca in Jazz ha voluto proporre con i suoi sodali un programma dedicato alle meravigliose musiche dell’unico autentico Duca della musica di ogni tempo, Edward Kennedy Ellington detto Duke (1899-1974).
Un filo tutt’altro che sottile lega Ellington a Mingus, tanto che possiamo considerare tranquillamente il primo come Maestro del secondo.
Quando aveva poco più di diciassette anni il contrabbassista ebbe la straordinaria e il necessario talento per entrare stabilmente nella compagine orchestrale di Ellington che notoriamente aveva grande cura e rispetto per i propri musicisti, tanto da tenerli sotto contratto, in alcuni casi, per un’intera vita.
Charles Mingus si fece licenziare in tronco per aver inseguito con un’ascia da pompiere durante le prove un altro orchestrale che lo minacciava con un coltello.
Il contrabbassista ritrovò il suo Maestro molti anni dopo durante le registrazioni del monumentale “Money Jungle” (1963) dove riuscì a litigare furiosamente con il batterista Max Roach.
Duke Ellington era un ragazzo del 1899, come i cavalieri di Vittorio Veneto, era un cavaliere del Jazz.
Ellington da ragazzo voleva fare il pittore, ci è riuscito con la sua orchestra che utilizzò come una meravigliosa tavolozza di colori. Tra i tanti brani che lo dimostrano anche al di fuori del Golfo Mistico, il misterioso monocromo “Mood Indigo” vibra di vive emozioni nell’arte contemporanea come un prisma di luce scura. “Ooh you have been blue, yes, not till you have the mood indigo”
Il trio di Maier ha iniziato a far splendere e luccicare il proprio swing dall’imprescindibile “Take the A Train”
E’ una modalità del Jazz che non sembra far mai male a nessuno, arriva semplicemente alle nostre orecchie e ai nostri piedi come una salutare vibrazione ritmica. Sfortunatamente non è sempre così, lo swing sa anche mostrare i suoi lati più chiaroscurali e perfino drammatici. Per continuare con il “gioco” delle contiguità con Mingus vi è un drammatico brano delle memorie dell’ultima moglie del grande contrabbassista che fa proprio al caso nostro. Nel 1977 a Mingus era stato diagnosticato il morbo di Lou Gehrig (Sla) che gli lasciava pochi mesi di vita.
Sue Graham Mingus scrive:
“Durante tutta quella settimana andai avanti e indietro dal nostro appartamento nell’East Village all’ospedale, piangendo contro i finestrini scuri del treno A, la leggendaria metropolitana per Harlem che Duke Ellington e Billy Strayhorn avevano trasformato in inno del Jazz. “Take the A Train” era il tema con cui Charles chiudeva le serate al Five Spot l’estate in cui ci incontrammo”.
Una dolce signora tra il pubblico si chiede perché si suoni così poco questo genere che a molti sembra fuori moda e perfino anacronistico.
Purtroppo sembra essere passato il pregiudizio che il jazz debba solo essere noioso, astratto e incomprensibile per il grande pubblico, altrimenti non è una cosa seria.
E’ un po’ la medesima critica che facevano a Ellington alcuni scalmanati quando lo ritenevano troppo indulgente con il pubblico dei bianchi, mentre la vera rivoluzione in musica la faceva sempre lui con i suoi ritmi e le sue musiche apparentemente così disimpegnate e accessibili.
Chiunque abbia anche solo guardato uno strumento da lontano capisce bene che le cose a prima vista più semplici in realtà non lo sono per niente e che la musica di Ellington ha una forza dirompente e gentile.
Sempre nelle memorie, Sue Graham Mingus riporta un ironico dialogo tra suo marito e il Duca: “Duke, perché tu, io Dizzy (Gillespie), Clark Terry e Thad Jones non ci mettiamo insieme per fare un disco d’avanguardia?”. La risposta di Duke fu rapidissima: “Perché dovremmo tornare tanto indietro, Mingus? Perché non facciamo piuttosto un disco moderno?” “E questo mi parve molto divertente” scrisse Charles, “Perché Duke stava dicendo esattamente quel che pensavo io…Duke rifiutò perché lui considera sorpassata la cosiddetta avanguardia di oggi. Ed è vero. E’ sorpassata perché la suonano dei principianti”.
C’è stato un tempo nel quale il jazz era essenzialmente una musica da ballo che si andava a sentire per puro divertimento e per fare quattro salti, era uno strumento per esprimere felicità e il sax tenore esprimeva soprattutto sensualità e calore, era tutto quel mondo che precede l’epifania di Coltrane. Anche lui, non a caso, fece un magnifico disco con il musicista più sperimentale e all’avanguardia di ogni tempo, Duke Ellington.
Maier e i suoi musicisti non sono per nulla dei “principianti” e probabilmente, nel senso che abbiamo detto più sopra, non lo sono mai stati.
Il loro modo di suonare è “moderno”, fresco, piacevole e dalle sonorità scintillanti. Maier sa mettere in circolo la linfa vitale del talento del trio senza mai sovrapporsi agli altri, distribuendo efficacemente i propri impulsi anche quando suona su registri morbidi e pastosi, senza ombra di dubbio anche grazie alla sua assoluta padronanza timbrica sia a pizzico sia con l’archetto. Le sue corde sono in grado di cantare tutta la gioia di una giornata estiva come quelle che allora si affacciavano.
Vattovaz (1999) è tra i giovanissimi allievi prediletti del leader che lo coinvolge molto spesso nei più diversi progetti, si sta facendo rapidamente strada nello scenario jazzistico non solo regionale grazie ad una grande versatilità e alle tante collaborazioni che sta intessendo nel corso di questi suoi primi anni di una carriera che si indovina lunghissima. Nelle sue bacchette c’è decisamente dello swing, così come nell’ancia di Tull che, invece, ha già molta esperienza e una lunga teoria di incisioni e concerti alle spalle, anche lui sovente al fianco di Maier, predilige suoni rotondi e classici, la voce del suo sax è cristallina e piena di quel groove che distingueva gli orchestrali di Ellington.
E’ proprio una formazione in trio come questa che ci permette di comprendere quanto siano stratificate e polissemiche le composizioni del Duca.
Gli ultimi brani del trio hanno concluso piacevolmente anche l’edizione 2023 di “Biblioteca in Jazz”. Prima lo standard “Caravan” del 1937 con il quale il Duca intendeva farci viaggiare verso un Oriente tutto sognato e immaginato nel quale, ormai è chiaro a tutti, il contrabbasso non può essere solo un semplice strumento d’accompagnamento.
Nel bis “Beyond Category” il trio è riuscito ad esprimere in sedicesimo il senso dell’arte del grande compositore americano che diceva di essere assolutamente al di là di ogni categoria, del tutto fuori scala e inarrivabile aggiungiamo noi poveri mortali a cui non resta che contemplarne la bellezza e complessità.
La “Biblioteca in Jazz”, anche per quest’anno saluta e, rinnovando l’appuntamento per il prossimo anno, invita a riflettere su una significativa frase di Victor Hugo che visti i tempi male non fa: “L’uomo che non medita vive nell’oscurità, quello che medita nel buio”.
© Flaviano Bosco – instArt 2023